Davanti a non più di cento persone questa sera all’Init è successo davvero qualcosa di quasi importante. Il grande hype (più di critica che di pubblico in effetti) intorno al pur bel secondo full-length dei Black Mountain avrebbe potuto lasciare il tempo che aveva trovato, ben presto rimpiazzato da altri fenomeni di critica, altri salvatori del rock, altri dischi dell’anno, o altri geni incompresi. Non esistesse la dimensione live, sarebbe andata così. E invece, se non andrà così, è proprio perché altre ottanta/cento persone, in qualche altro club del mondo avranno ascoltato questi cinque ragazzi suonare, e vi avranno accolto, ad orecchie ben aperte (o comunque aperte a forza dal suono robusto e mai auto-compiaciuto della band) la venuta di qualcosa di nuovo, e la conferma di un’autenticità che già il disco sembrava dichiarare, facendotela balenare davanti agli occhi, ma senza la certezza che non si trattasse di un miraggio, di un’illusione ottica.
Il concerto si apre sullo splendido vibrato della signorina Webber che libra la sua voce freschissima da bambina disperata su’ su’, fino in cima alla sala, a fare di Night Walks (traccia di commiato del cd, e qui in prima posizione) un mantra che libera il cuore e lo fa volare alto, l’entrata perfetta di un suono compatto caldo e corale, che preannuncia grandi cose per i brani a venire.
C’è una strana energia, e la sensazione di essere al posto giusto, almeno per questa sera. E facile mi viene a dire, dopo la quiete, la tempesta: Stormy High insegna a tutti che cos’è il rock and roll, i suoni escono caldissimi (menzione particolare meritano gli impasti di chitarra del buon frontman Stephen McBean col comparto tastiere vintage minimoog-hammond-mellotron, roba davvero deliziosa per le orecchie). La sensazione è quella di un gruppo che con tutte le ingenuità del caso ti dimostra quanto sia il talento cosa importante, e in particolar modo quanto siano oggi in disuso virtù artistiche quali la compattezza di intenti e il crederci davvero. Quanto sia appunto fondamentale per una band la voglia, la freschezza e la fantastica “presunzione” di volerti comunicare qualcosa. Roba in controtendenza, roba che ci riporta dritti dritti alle radici della questione, e che risveglia gli animi. Roba che non è un lusso, o un orpello aggiuntivo, intendiamoci, ma che dovrebbe essere la condizione naturale di chi pretende di fare del rock. Non sfugge credo a questi cinque ragazzi che stiamo vivendo in tempi oscuri, tempi vergognosi in cui il volere comunicare qualcosa suscita il riso o la riprovazione addirittura degli stessi a cui il messaggio andrebbe destinato. Mica da ridere. Ma la risposta di questa band è suonare ancora più forte, fare il rock appunto, e non deporre le armi e “giocare alla band emergente”, o al gioco dei riferimenti al passato. Se i riferimenti ci sono, è solo perché sono esattamente quello che costoro vogliono comunicare. Perché sono solo le armi che costoro hanno trovato per la strada e che hanno imparato ad usare.
Come che sia, rapiti da questi brumosi pensieri, arriviamo ad Angels, una delle ballate “forti” dell’ultimo lavoro, riprodotta fedelmente e con un cuore grande così, come il suono del solo di mellotron, come un basso che sta buono buono al servizio del pezzo, costone dopo costone dietro ad un groove, con la testardaggine di un ubriaco, o come due voci che duettano come fratelli. E se di groove si parla spunta Wucan, con il suo giro a vertigine che ti si avvita in spire sulfuree su un inciso fatto di moog. E il fatto è che qui nessuno è un mostro di bravura, ma i pezzi (in verità poi tutti splendidi dal primo all’ultimo) escono carichissimi di elettricità, la stanza ne è satura, e non è di volume. E così anche gli stop-and-go riescono perfetti e carichi di aspettativa di qualsiasi altra cosa abbia la grazia di venire dopo. E senza lasciarci nemmeno il tempo di godere di quanto appena sentito, è la volta di Queens Will Play, altra gemma dell’abum affidata ancora una volta alla voce eccentrica, favolosa ed evocativa della strepitosa signorina Amber Webber, il cui enorme talento riveste di scintille un aspetto assai favolosamente modesto e sommesso. Promossa a furor di popolo. Il finale è a dir poco potentissimo. E poi giù manciate su manciate di brani, e poi, come altri, perdo il conto. Ma ad un tratto so che Tyrants è una delle cose più intense, vendicatrici, rock, truci e selvagge che mi sia mai capitato di ascoltare dal vivo, un anatema contro la protervia del Potere scritto e suonato da lupi famelici, e con la fauci che grondano sangue. E tutto torna al suo posto, allora. Tutto ti indica una sola direzione: ché certo (finalmente, aggiungerei) hai assistito ad un evento al quale era importante esserci, e non al quale fosse importante “dire di esserci stato”. Caldamente consigliati.