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Può succedere che a volte lo stupido nesso che vuole la purezza legata a qualcosa di originario e solo in quanto tale più vicina ad un rapporto virginale con la realtà, trovi effettivamente un riscontro nel saper riconoscere solo quello che c’è di antico in quello che ci procura estasi.
E’, per il sottoscritto, il caso del disco di debutto dei Fleet Foxes, band di Seattle a cui mi sono avvicinato spiando l’incanto di altri, tempo fa.
Si tratta di pop ancestrale, cavalcato da fantasmi di teste mozzate mentre intonavano un canto medievale su bestie crinite di nylon; folk per nulla weird né freak, in fondo, ma talmente libero e sottile, da lasciar intuire il peccato e la sporcizia della sua vita precedente.
Una vita precedente che possiamo solo provare a collocare, con gli strumenti che abbiamo, tra la British invasion alla Zombies, il rythm ‘n blues di scuola soul e gospel alla Sam Cooke & The Soul Stirrers, le irriverenze dell’indie folk contemporaneo e quel gusto ricco per la tradizione a la Fairport Convention, senza che nulla di questo ne sia la sostanza rimasta viva.
Basta un attimo per abbandonarsi alle sete e agli incensi di questi suoni, un attimo per rimanere senza difese, appena un po’ di più per lasciarsi sconfiggere della loro essenza cruda e viscerale.
Cesellate melodie celestiali che trovano i loro contrappunti da un lato in giochi di voci e cori, intensi e carnosi, dall’altro in interventi centellinati ma puntuali di ritmiche grasse e tese, capaci di liberare un spirito tribale senza alcuna traccia di morbosità. In mezzo un florilegio di sfumature e suoni, strumenti e passioni. Ed è tra queste coordinate con inizia Sun It Rises, descrivendo paesaggi bucolici eppure febbrili, sotto la cui superficie si agitano mostri sonnolenti. Il primo brano si spegne in una scintilla di chitarra che è il perfetto intro per White Winter Hymnal, dall’andatura delicata e ciondolante, fino all’entrata magica delle percussioni e di un coro ovattato che danno nerbo e respiro ad una canzone magistrale.
Freschezza tutta pop che ritroviamo in Ragged Wood, piccolo manuale di spensieratezza e lirismo, poggiato su splendidi ghirigori, come disegnati su di una superficie d’acqua. Della stessa pasta Quiet Horses, dolcemente ossessiva e il dolente tono leggendario di Your Protector, gioiello di delizia e lucenti rottami d’armature sporche di erba e sangue.
I gorgheggi da gioioso lebbrosario di He Don’t Know Why, tra inserti di accordi arrugginiti in un impianto soave che trova pace in una coda di piano, o lo spuntare delle Blue Ridge Mountains dove elaborati intrecci di arbusti incontrano nenìe orientali, sulla cima, in un irraggiungibile convento tibetano, rendono l’idea di come le canzoni dei Fleet Foxes riescano a sembrare barocche e insieme impalpabili, dense e inebrianti, capaci, con innocui giochetti, di arrivare al cuore, di sgombrare ogni tipo di sospetto, ogni bramosia di futuro, prendendo senza alcuna ritrosia la strada più tortuosa per la ricerca della semplicità, di una essenzialità sciamanica senza alcun bisogno di essere psichedelica.
Spettri, Fantasmi. Basta lasciare che i nostri corpi e le nostre membra prendano la forma di meandri di castelli infestati. Tutto quello che abbiamo per dare una forma alla purezza dei nostri sensi sono solo ricordi, cose già successe, già passate per gli stessi corridoi. Senza che nulla sia reale sostanza viva. E’ solamente, semplicemente, tutto quello che possiamo riconoscere.