Jason Crumer – Ottoman Black

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L’hype è hype, si sa, e per quanto uno si sforza di non obbedirgli, di tenersi per l’anno successivo i dischi di cui parlano tutti, ora, di moderare le aspettative, di evitare di aggiungersi al coro dell’entusiasmo facile, ci sono dei dischi per i quali saresti sempre e comunque preda e promotore dell’hype, e il sottrarvisi non porterebbe a nulla se non al sapore di un’occasione mancata. Per fortuna qui parliamo di harsh noise, quindi anche parlando del disco probabilmente più chiacchierato del 2008 non peserà troppo il risalto che tutte le distro, fanzine e blog stanno dando a questa release. Le premesse sono tutte facilissime da immaginare: Jason Crumer è americano, suona nei Facedowninshit, ha alle spalle una buona quindicina di cassette, cdr e cd su Chondric Sound, RRRecords e Misanthropic Agenda – uscite tra le quali, per orientarsi, consiglierei la cassetta ‘What Is Love’. Questo ‘Ottoman Black’ è uscito niente meno che per Hospital Productions (Dominic Fernow, dice niente il nome?), quindi ecco che risulta facile infilarlo esattamente tra Prurient, Hair Police, Burning Star Core, Richard Ramirez e tutta l’allegrissima combriccola di disadattati noise abituati a sommergersi a vicenda di release limitatissime piene di indicibili rumori. Il bello è che in tutta la variegata massa di non-musicisti lo-fi che spaziano dai cloni di Merzbow&Co. alle più inimmaginabili band di freak-noise, Jason Crumer spicca come un astro nascente, capace di imporsi con poche tracce ben al di sopra della media paludosa, appunto, marcissima, sì, ma immobile, di una scena sovraccarica. Oltre ad una composizione variegata e piuttosto “seria” – nessuno spazio a sample nonsense, banalità e clichés – e a un’atmosfera opprimente e malsana, cosa difficile in fondo da ricreare usando solo una incredibile varietà di rumore, il punto di forza di ‘Ottoman Black’ risiede nella cura dei suoni e nella produzione, attività spesso trascurate da chi si dedica all’inutile arte del noise, nelle quali spesso risiede la vera differenza tra il girare manopole a caso e il comporre un disco sensato, senza per questo arrivare a pretese intellettuali e concettuali proprie del noise colto, di Maurizio Bianchi, degli esteti del rumor bianco, di quelli che con un po’ di pulizia e lucidatura si trincerano dietro improponibili studi di ogni aspetto e frequenza del loro purissimo sound: no. Il noise ci piace grezzo e violento, saturo, annichilente, ruvido. Jason Crumer lo mette su cd regalandoci lo stesso effetto che ci garantirebbe spararcelo nelle orecchie dal vivo, a un metro di distanza, arricchendolo con spunti di synth dronici utili per una decompressione di fine disco (Certified Blue) e inaspettati mash up di schiocchi e tonfi che paiono sfuggiti alla colonna sonora di un pestaggio in qualche snuff giapponese (Where Were You?). Ovviamente mentre voi starete leggendo queste righe lui avrà già pubblicato altri 3-4 dischi, e registrati altrettanti, sui quali sono prontissimo a scommettere, viste le premesse e lo svolgimento.