The Editors: Sintesi, antitesi, tesi.

Si sente spesso dire che la musica proceda ormai per mode velocissime, schizofreniche, che non hanno nemmeno il tempo di affermarsi che già diventano desuete, come se non fosse più epoca di lunghe evoluzioni, correnti profonde, movimenti stilistici di spessore.
Il rilevamento può essere vero nella misura in cui si voglia descrivere la superficie della musica leggera contemporanea: gli strumenti della Rete hanno differenziato un’offerta che una volta era molto più monolitica, favorendo il proliferare e il frazionamento di piccoli fenomeni. Restano però evidentemente dei sommovimenti e delle correnti molto più profondi e sostanziali, che l’increspare dei movimenti superficiali può mascherare, confondere alla vista ed alla percezione, ma non eliminare.
Un dato certo, e di medio periodo, è il fatto che nelle orecchie e nella percezione dei più giovani non esista quello iato incolmabile tra rock ed elettronica che colpiva come una mannaia le band che azzardavano il passaggio da questo a quella, diciamo, anche solo dieci anni fa. Ovvero, Il fatto da segnalare è che ormai la musica rock ha sdoganato definitivamente l’elettronica, e lo ha fatto in maniera spontanea, senza riserve. Complici l’avvicinarsi del mondo del clubbing e della dance a quello del rock, a partire almeno dagli anni novanta, e complice poi la crasi spontanea compiuta dalle frange più creative e fresche di questi anni, come l’indietronica (il termine semplicistico, però, mi ripugna) o la new rave.
E se è vero (come è vero) che molti diano già per morta la dubstep per essere sotituita da una qualsiasi altra definizione passeggera ed effimera, è pur sempre vero che nel 2009 tre gruppi importanti del recupero della lezione wave degli anni ottanta (Killers, Franz Ferdinand, Editors) abbiano tirato fuori i dischi più elettronici della loro intera carriera. Sì, ho detto Editors e non sono impazzito.
Perché in una fresca serata di inizio estate, che quasi minaccia di pioggia, nella piazza piena ma non gremita di uno dei gioielli dell’Italia rinascimentale, Ferrara, la band degli Editors apre la scaletta del proprio show con un brano nuovo di zecca, che sicuramente andrà a confluire nel prossimo imminente lavoro, confermando senza ombra di dubbio i rumori che davano il terzo disco come il lavoro più elettronico della band di Birmingham. La prima impressione è buonissima, il chitarrista si sposta ai controlli del synth per un brano stimolante, epico, nuovo, ritmico e seducente, che non può fare a meno di richiamarmi il feeling dell’ultimo concerto dei Killers. La magica voce di Tom Smith, che cita e ricuce frammenti degli anni ottanta da sapiente cesellatore qual’è, risuona in primo piano come una palla di fuoco in mezzo agli strumenti, e così per l’intero concerto, complice una perfetta acustica e un ottimo lavoro del comparto tecnico. Un inaspettato crooner, un Johnny Cash dei tempi nostri, per timbro, calore, e oscurità espressività.
E poi la festa: Racing Rats apre le danze, ripartono le chitarre a pieno regime, le casse pompano che è una bellezza, fugando tutti i miei dubbi riguardanti volumi e location storiche. La piazza canta e la voce in primo piano del leader è scelta azzeccatissima, valorizzando una performance vocale che si rivelerà incredibile, energica, dinamica e pressoché perfetta. Come perfetta è la presenza scenica: un frontman che aspettavo al varco timidino, complessato e chiuso in se’, e che si dimostra istrionico, magnetico, saltellante, acrobatico mentre sgrattuggia la sua chitarra, e perfino potente.
Seguono Lights e Bullets dal primo lavoro (non saranno pochi i brani tratti dal primo album), per giungere quindi alla presentazione di un altro inedito, di cui Eat Raw Meat=Blood Drool (a quanto apprendo da altri siti) dovrebbe essere il titolo di lavoro. Al di là del titolo, il brano ricorda qualcosa di ambient o di world music (uso questi due termini nella loro accezione NON deteriore), tipo Brian Eno o Peter Gabriel: una sorta di Shock the Monkey, per intenderci. Se, come pare, il regista del lavoro sarà nientepopodimenoché Flood (il compare di Alan Moulder) non c’è che da ben sperare ed attendere con ansia.
E’ la volta di Munich e della meravigliosa When Anger Shows, dal vivo un vero e proprio capolavoro, nella sua intrigante struttura ritmica e maturità melodica. Ne esce un pezzo che non dispiacerebbe ai Radiohead dell’ultimo periodo, anche perché la componente synthetica dell’esecuzione ne risulta potenziata. Tracce profonde di una corrente, di un mutamento imminente, di una scelta stilistica carica di passato (di vent’anni fa almeno) e di futuro (per le possibilità che tale mutazione comporta). Di fatto è chiara la strategia che gli Editors stanno mettendo in campo questa sera: recuperare i pezzi più adatti allo scopo dal primo e dal secondo album per caricarli di synthwave e creare un evidente fil rouge che punti il dito in direzione del nuovo lavoro. Un accorgimento che spieghi con la forza delle note, e non delle parole, la loro evoluzione. L’operazione riesce sotto tutti i punti di vista, con in più la lode del coraggio, della freschezza e della perizia tecnica dei nuovi arrangiamenti, che riescono mai invadenti, anzi rispettosissimi dei brani, eppure potenti, e a volte persino nobilitanti.
Come avviene per Camera, che questa sera è in grande spolvero. Stesso discorso, mezz’ora dopo, per Fingers in The Factories, altro brano dalla struttura evidentemente adatta e malleabile a mettere in luce le possibile derive del disco d’esordio, che come un fiume carsico hanno attraversato il secondo lavoro, per poi riemergere qui. Intanto vengono snocciolate le tiratissime Bones e An End Has a Start, una dietro all’altra, veri anthem chitarristici da stadio. A cui fa seguito un altro inedito ancor più cupo dei precedenti, The Big Exit, a quanto pare: una sorta di Dead Can Dance del periodo “Within The Realm Of A Dying Sun”, un uso della voce alla Brendan Perry, quel tono mastodontico, epico, barocco e dolente, e un’elettronica vicina ai Depeche Mode (sì, ma di Black Celebration). Ce n’è abbastanza per capire quanto lo sforzo di innovazione e di recupero proposto dagli Editors a questa altezza non sia affatto velleitario, né inconsapevole della filologia e delle radici profonde del periodo al quale guarda come riferimento.
E il concerto si chiude nella migliore delle istanze con Smokers Outside The Hospital Doors, ballata estremamente bella, estremamente riuscita, che a chiunque piacerebbe aver scritto. Forse il vero e proprio Inno.
Rentrée sul palco di rito con You Are Fading (b-side di Bullets molto amata dai fan), questa volta colorata del fucsia di una tastiera che ricorda A Dustaland Faitytale dall’ultimo lavoro dei Killers, e di chitarre in delay alla U2.
Segue la già citata Fingers in the Factories e una nuova “Papillon” a chiudere il poker degli inediti, con il suo synthpop preso in pieno da People Are People dei Depeche, a chiudere così il concerto.
Concerto che non è stato lunghissimo a dire il vero (un’ora e un quarto), conforme al trend negativo imperante da un po’ di tempo a questa parte, ma di un’intensità espressiva e di uno spessore tecnico davvero impressionanti. Per quanto mi riguarda consacra gli Editors ad una delle realtà più belle ed eleganti dell’attuale panorama musicale inglese. Viene aperto inoltre in maniera leggera e dignitosa dai romani Klimt 1918, la cui musica romanticamente wave e delayosa io amo molto, e che consiglio a chiunque abbia a cuore queste sonorità. Nel complesso, dati contesto, atmosfera, suoni e qualità dello spettacolo, un’esperienza che vale tutto il prezzo del biglietto. Poi, se vogliamo fare polemiche sul caro biglietti, ben vengano, sono giuste e sacrosante. Ma l’altissima qualità di uno spettacolo va, secondo me, segnalata e valutata, al pari – e forse anche di più – della sua durata.