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Alla tenera età di sessant’anni compiuti l’errebì è ancora oggetto di scoperta. Se ne facciano una ragione quanti cercano di venire a capo del complesso intreccio di attività collaterali intessute fino ad oggi dei Black keys: per la serie “indovina dove sono Dan e Patrick?”, c’è chi dà il duo più spostato verso l’hip hop del recente progetto Blacroc, chi è intento a riconsiderare il peso della prova solista di Auerbach (bluesman di razza) e chi, al contrario, crede di averli riavvistati sul luogo del primo reato – quell’Attack and Release uscito da due anni che già sembrano dodici. Sono in pochi ancora ad essersi accorti che, alle orecchie dei due, tutto l’ultimo mezzo secolo di musica nera sembra viaggiare all’unisono, e che proprio da questo assunto teorico muove l’intero discorso di Brothers.
Inciso ai Muscle Shoals sound studios che ospitarono Staple Singers, Rolling Stones, Aretha Franklin e compagnia, è un album che al primo ascolto pare ben saldo sulle coordinate di un semplice rockblues per chitarra e batteria: eppur si muove. Con sottile eleganza si va dalle ritmiche groovy di Tighten up (Danger Mouse in regia) a vibranti cantati soul e assoli zeppeliniani. E se Never Gonna Give you up suona filologicamente vicina all’originale di Jerry Butler, le linee vocali di Too Afraid to love you o il giro di batteria che sorregge The go getter non sfigurerebbero come campionamenti in un singolo di Kanye West. No, non è il vostro udito ad essere diventato “strabico”: Brothers suona proprio come gli LP di una volta. Ma, per trovare le orecchie giuste, non poteva che uscire ora.