Buon anno a tutti voi, aspiranti rivoluzionari del rock italiano, auguro che il 2011 sia l’anno della vostra grande svolta, o di una profonda presa di coscienza su come vanno le cose nel mercato discografico italiano. Volevo stavolta iniziare con un ringraziamento: in 4 mesi di rubrica siamo stati letteralmente inondati dai vostri album, demo, EP, cd-r, online release ed abbiamo superato quasi le 130 uscite in attesa di essere recensite (eh, c’è da avere pazienza). Questo da una parte mi fa pensare che, nonostante la nave stia continuamente e lentamente affondando, l’orchestra non ha smesso di suonare e si avvicina al baratro con il sorriso.
Scherzo, non la penso così veramente (ma chi può dirlo). D’altro canto però siamo lusingati dal fatto che tantissimi vogliano l’opinione di Rocklab (sotto forma di sproloqui del sottoscritto) sul proprio prodotto: cerchiamo sempre di fare del nostro meglio e di giudicarvi in maniera giusta, ponderata, rispettosa ed un pochino provocatoria. Insomma cerchiamo sempre di darvi una opinione che sia ragionata e mediata fra cuore e mente, fra fiducia e malafede, fra la punta dell’orecchio che ascolta e l’alluce del piedone che batte il tempo a terra, anche se sappiamo che non può piacere a tutti (e sarebbe preoccupante il contrario). Insomma, a scrivere recensioni che sono il rimaneggiamento del press kit allegato o dove tutti sono “bravi bravi” oppure sono”merda merda” non ci vuole nulla e lo fanno già in troppi.
Primo cd di oggi sono i Vanderlei con L’inesatto. Sono emiliani, non sono dei ragazzini, non sono alla prima release e sanno come si tira fuori un bel dischetto. Togliamoci il dente, la produzione è di Paolo Benvegnù e sinceramente, non ci stanno obiezioni da fare su come questa è stata gestita, semplicemente azzeccata. I Vanderlei per me sono l’ennesimo segno che stanno tornando prepotentemente le sonorità degli anni ’90 (inutile che vi faccia la lista che inizia con Afterhours e finisce con Verdena) e non posso che urlare hurrà ogni volta che questi segni mi si rivelano (è dura non provare un debole per la musica che si ascoltava da adolescenti). L’inesatto come album ha un inizio decisamente interessante, la prima traccia, Cedere, sa come creare tensione facendo stridere la parte musicale con la parte vocale e così continua la sensazione fino alla terza canzone. In Pittori invece l’album sembra prendersi una pausa (il pezzo per certi versi sembra ricordarmi i Perturbazione) allungata fino a (Gioco). Con Santissimo Dubbio cerca di ricreare la tensione iniziale ma il pezzo fallisce per un songwriting un po’ banale e dall’ascolto facilotto, insomma non un gran pezzo. Va meglio con Il fascino dell’attimo ma sembra che i due pezzi non abbiamo il guizzo di quelli che si trovano ad inizio album: la scrittura perde un po’ di smalto ed anche i pezzi sono decisamente meno grintosi ed un po’ seduti, peccato davvero. In ogni caso stiamo parlando di un buon prodotto con canzoni sopra la media, che si ispira ad ottimi artisti ma che, d’altra parte, non sembra sia riuscito a fare un passo avanti: bravi (quasi) come i Diaframma ma non meglio.
Adesso andiamo ad ascoltare i Vanity di Livorno. Per prima cosa è particolare il fatto che debba alzare un bel po’ il volume delle casse per poter ascoltare The first quiet night EP, suona bassissimo, mi ritrovo contrariato. Devo dire che mi sarei aspettato un Ep del genere almeno 4 anni fa, in piena epoca Maximo Park, The Pigeon Detectives, The Rakes, Art Brut, Bloc Party e compagnia bella. La proposta non è malvagia (Blackmail Disco è un pezzo che tranquillamente ogni inglese si sarebbe bevuto se spacciato da NME) ma non c’è niente di peggio che essere quel pelino fuori tempo massimo, in un momento dove la musica va in una certa direzione, per sembrare irrimediabilmente indietro e fuori moda (che è proprio la morte per questo genere che si basa sulla fighetteria spinta). Credo che a parte i Vanity, in Italia a seguire questa scena morta e sepolta ci siano rimasti solo i Leggins di Milano, quelli che hanno basato la loro “carriera” su un litigio on line con il cantante degli Arctic Monkeys (di cui sono praticamente la tribute band per quanto ne hanno saccheggiato idee e stile: “Hey dai, raccontaci di quando Alex Turner ti ha dato dello stronzo! Mi sa che aveva ragione!”). Mi spiace ragazzi, vi siete imbarcati in un genere che è stato sfruttato intensamente e che in questo momento non ha proprio più nulla da dire.
Terzi della giornata sono i Lilith, umbri, con l’album Note a margine. La prima traccia, Vita lieve e va, mi ha fatto pensare una una band fresca e dalle buonissime basi pop, dal secondo brano in poi mi sono un pò depresso perché ho pensato ai Baustelle. Il tempo surf di Avamposto, la lavorazione della voce in Berlino, mi hanno inquietato non poco, ma andando poi ad ascoltare più attentamente in effetti bisogna dire che sì, c’è un po’ del Bianconi in quello che fanno, ma per fortuna non ne prendono le cose pessime come la metrica sbilenca, le melodie sciatte delle strofe, gli accenti spostati e la retorica da falso dandy annoiato. Manca quello strato di patinatura che di solito ci si aspetta da band di questo genere ed in questo caso è una lodevole mancanza: le canzoni hanno un sound che è radiofonico ma non sputtanato: evitano lo smarmellamento e si percepiscono bene tutti gli strumenti (in certi punti, specialmente in As-sumut, sembra però che la chitarra se ne vada troppo per i fatti suoi) . Il disco in generale mantiene sempre lo stesso mood un po’ disimpegnato, ma nei momenti dove in teoria si vorrebbe spingere di più, come nel ritornello di Tango (la resa), sebbene in effetti il cantante stia urlando, sembra di avere il freno a mano tirato, e ciò toglie dinamica e pathos al brano, e non va bene. Andando avanti nell’ascolto mi accorgo che in questa band si trova anche un pizzico di Mario Venuti (M-theory), soprattutto nelle linee melodiche della voce presenti nei bridge delle canzoni sempre tendenti agli alti registri. Buona prova in definitiva quella dei Lilith, per chi ama il pop italiano non è un disco da disdegnare affatto.