Aucan – Black Rainbow

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7 febbraio 2011 Tempesta Dischi - African Tape myspace.com/aucan

Blurred (feat. Angela Kinczly)

C’era una volta Aucan, stellina appena nata ma già radiosa nell’affollato firmamento dell’underground italiano. Stesa come un sudario cosmico, una cortina diafana di post rock pulviscolare ne ammantava lievemente la superficie, sconquassata da un turbinìo di spasmi e rigurgiti arroventati.

All’interno, una catena di incessanti implosioni math si agitava sotto un magma di postcore radioattivo, formando una sostanza nucleare altamente energetica ed instabile eppure sufficientemente strutturata da evitare spaventose deflagrazioni. Pur in una costellazione dominata da giganti, Aucan aveva tutte le caratteristiche per rifulgere sulla concorrenza.

Tempo due anni, e l’ep DNA getta una nuova e agghiacciante luce sull’evoluzione del progetto. Aucan, nel suo deambulare per i corridoi astrali, aveva inglobato un ricco campionario di detriti alieni, riconducibile a lontane galassie elettroniche. Una nebulosa purpurea di synth raggelanti, droni apocalittici e battiti ossessivi fagocitava, spodestandola quasi del tutto, la componente umana del sound, che si arricchiva, in compenso, della compulsività geometrica di Jacopo Battaglia (Zu) alle percussioni. Con l’uscita di Black Rainbow possiamo dire che Aucan abbia raggiunto il suo ultimo (ma si spera non il definitivo) stadio metamorfico. Collassata sotto l’immane pressione di idee, commistioni e suggestioni, la stella si è trasformata in un colossale buco nero in grado di risucchiare ogni traccia di luce e cromatismi entro il suo orizzonte degli eventi; un orizzonte che copre due decenni di sperimentazioni elettroniche.

L’apertura con “Blurred” è sintomatica di questo nuovo corso: la voce ipnotica di Angela Kinczly si innalza su un livido paesaggio extraterrestre, spazzato da una tenue brezza siderale (screziature e interferenze quasi subliminali, riverberi amniotici, vibrazioni liquide fluttuanti nel nulla abissale). Pare di ascoltare dei Portishead sonnambuli a spasso sulla superficie di un pianeta sconosciuto. L’anima Dubstep già intravista precedentemente costituisce l’ossatura di buona parte dei brani, si pensi a “Red Minoga”, dancehall da stazione orbitante scossa, nelle battute finali, da un tumulto vorticoso di echi stratificati, oppure alla devastante “Away!”,  in cui momenti di stasi post nucleare preludono ad una cadenza-panzer che rammenterebbe le convulsioni abrasive dello stoner, se fosse intrisa di elettricità piuttosto che somigliare ad un monolite androide. Sound Pressure lancia qualche ammiccamento alla Witch House (i synth algidi e magniloquenti), ma svela la sua fragile natura terrena nelle linee vocali emotive ma non emozionali, alienate ma non aliene, straziate ma non strazianti. Spetta alla bellissima e malinconica title track siglare degnamente l’opera: un gruppo di naufraghi che contempla un’aurora boreale su un asteroide alla deriva, destinato, si spera, ad approdare su lidi più umani.

Black Rainbow non è proprio un disco ballabile, ma scandaglia con una formidabile intensità l’isolamento dell’uomo post-moderno nella sua triplice articolazione: individuale, suburbana, cosmica. Se cercate un’intelligente ricombinazione di stili e tendenze (Aphex twin, Autechre, Boards of Canada, Industrial, Idm, Dub, Trip Hop) compressa in canzoni che non oltrepassano i 5 minuti, avete trovato una nuova bussola, lassù.

Complimenti alla sempre più impeccabile “la tempesta” per la sua opera di diffusione all’estero, grazie al ramo“international”, di una delle realtà italiane più intriganti (e meno italiane) degli ultimi anni.