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15 Marzo 2011 | Full Time Hobby | Erlandthecarnival.com |
Nightingale
Come mia consuetudine in questi casi, tento di agganciare te, lettore distratto, a leggere questa recensione (ma soprattutto ad incuriosirti sul disco) dichiarando subito che per il sottoscritto si tratta del miglior album ascoltato in questo primo scorcio del 2011.
E’ un espediente ancora necessario, temo, perchè in Italia il disco d’esordio, omonimo, di Erland And The Carnival dell’anno scorso si era dovuto accontentare di poca, ma ottima, critica illuminata. Cosa non troppo sorprendente in sé. Pur trattandosi di un ottimo album, affondava profondamente le sue radici nel british folk, modernizzandolo con piglio originalissimo ma in maniera sufficientemente rispettosa da mantenere una distanza con chi non condivide quelle radici. Oggi quell’idea viene portata ad uno stadio ulteriore, che, non tranciando nulla, anzi esaltando la matrice inglese della storia musicale cui si attinge, genera un inebriante dialogo con la contemporaneità. Erland sarebbe Gawain Erland Cooper, compositore e vocalist della band, ma, forse a ragione, i media spesso mettono avanti il nome del multistrumentista Simon Tong (ex Verve, Blur e The Good The Bad & The Queen), che insieme a David Nock (session man in molti progetti di Youth, ex-Killing Joke), sono i responsabili della ricchezza espressiva del progetto. Il disco in questione è stato registrato su di un battello ormeggiato sulle rive del Tamigi e sembra averne catturato una forza torrenziale e un’epicità ondulante, dal fascino irresistibile.
La ricerca melodica prende spunto dalle più personali voci d’Albione, vengono in mente soprattutto i Pentangle, ma in questo secondo disco si dipana un discorso decisamente più personale ed originale nello sviluppo strutturale ed armonico delle composizioni. La prima connotazione che risulta lampante, forse solo come somma degli stessi ingredienti più che come influenza diretta, è la British Invasion anni ’60, il beat, i Beatles certo, ma soprattutto la coloritura psichedelica degli Zombies (penso ad Emmeline). Ma questo è solo l’inizio. Anzi, in realtà l’inizio del disco è So Tired In The Morning, una sorta di grasso proto-punk, suonato con strumentazioni folk e manipolazioni analogiche, con cui fa rima la sesta traccia The Night che nasce su di un’inciso rubato ai Television cui si aggiunge una ritmica beat e un gioco irresistibile tra accenni di tastiere magniloquenti e un piano quasi foxtrot. Non basta ancora. Se le colonne sonore del cinema di genere sono un riferimento riconoscibile (come Starsky & Hutch in copertina), meno scontato è che a cantare I’m Not Really Here, sulla Aston Martin, sembri esserci Jason Lytle dei Grandaddy. Impressione confermata dalla traccia seguente, I Wish, I Wish in cui, con quell’incedere cibernetico, fino ai rintocchi di vibrafono, sembra che Jed The Humanoid ritorni ad essere Pinocchio. Nei brani più soffusi come la titletrack e East & West riemerge l’ispirazione di Jackson C. Frank, oscuro e fenomenale cantautore inglese cui la band deve il nome del progetto e non solo.
Nonostante una cura certosina nell’orchestrare in modo drammaturgicamente e stilisticamente opulento, ricorrendo anche ad un’elettronica incisiva e puntuale, rimane un album capace di conferire quella carica confidenziale che solo il pop più essenziale sa dare. E’ un disco pregno di uno spirito avvincente ed avventuroso, geniale nel gestire una varietà di sfumature tenendo ben fermo il timone della composizione, curato nei dettagli senza sembrare cesellato né barocco, un bellissimo esempio di pop contemporaneo come non se ne fanno più, in quest’oggi che era appena ieri.