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12 Aprile 2011 | Sony Music | Glasvegas.net |
Take My Hand
Jonna Lofgren dalla Svezia è da poco entrata a “fare la batterista” nel quadrato degli scozzesi Glasvegas, e la dote che ha portato per corredare il suono complessivo di “Euphoric Heartbreak” – seconda pietra sonora della band – è quella di una “presa di coscienza” simbolica e pratica nel cercare di sbianchettare un poco il nero e quel senso prostrato generalizzato che intonacava il precedente debutto “Glasvegas”. E dato che con James Allan, il frontman, l’intesa iniziale è stata perfetta, questo disco suona “bianco”, veramente elettrizzato, ma anche gasato come anidride carbonica dentro una smilza bibita light.
Forse è una scelta di campo, ma in questo disco tuttavia non c’è nessuna certezza che si agganci con la realtà, le emozioni che nel primo album zampillavano come acqua scura, qui sono ridotte al minimo, canzoni e stimoli melodrammatici che, alla faccia della polpa virtuosistica, si fanno succhiare come quelle caramelle che dopo pochi giri di lingua esauriscono il flavour originale. Ancora di più questo secondo atto Glasvegas è un tuffo senza rete nelle atmosfere epiche ed esauste del cuore asfittico degli 80’s, nelle pomposità osannate dei primi U2 “The world Is Your”, “You”, “Euphoria, Take My hand”, spostandoci nel presente siamo intozzati fino al polpaccio nelle pastorali rock-ecumeniche dei Muse “Shine Like Stars” e null’altro che possa giustificare una virgola, una punteggiatura in più.
I poteri che all’inizio mostrano i muscoli nell’ evocare fantasmi, dolori, pompandoli a mille ben oltre la sontuosità, si sfilacciano quasi subito in una noiosa quanto triste coazione a ripetere quei muri del pianto stigmatizzati a iosa dai vari Big Country, Deacon Blue, Jesus & Mary Chain ecc. ecc.
La precedente batterista Caroline McKay, al momento di lasciare la band, rilascia due parole infuocate ai microfoni di una cronista del Daily Mirror.. “..consegnarsi e abbandonarsi ai voleri dei cugini Allan ed alla loro visione musicale in cima ad un architrave d’auto-supremazia è come rispondere OK alle angosce che ansimano nei loro spiriti, meglio disoccupata o andare a suonare i campanelli a Kensington Road..”.
Il considerarsi all’altezza “dell’altezza” non giova quasi mai, anzi per niente. L’euforia è tutt’altra cosa dalla skizofrenia: l’arte dell’umiltà non passa da queste tracce, ed il miracolo hype – pudicamente – non ha voluto sentirne di replicarsi nuovamente sotto le stelle lattiginose di Glasgow.