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Febbraio 2011 | Dunham Records | thecharlesbradley.com |
How Long
Per giudicare dischi come questo di Charles Bradley “featuring the Sound Of Menahan Street Band” come riporta la copertina, bisogna riprendere una delle questioni fondamentali della critica tutta, in parte irrisolta, ovvero può un disco fare il suo compito, avere il suo senso, a prescindere dal fatto che sia oggettivamente bello, se suona eminentemente e, soprattutto, volutamente, fuori tempo? Quali sono i termini per classificarlo come “vintage” e quanto questa definizione può influenzare una recensione?
Ci troviamo davanti ad un lavoro che sotto diversi aspetti vuole replicare le atmosfere e gli stilemi propri del Southern Soul anni 60, marchiati Stax, a cominciare dall’iconografia del personaggio, questo Charles Bradley, che è all’esordio ma che ha il fisique du role, del soulman anticato, una cosa pre-glam, da working class hero con una voce che mescola abilmente i crucci di Otis Redding e la grinta di James Brown. Sicuramente un colpo serio alla missione d’ascolto sarà scoprire che tutta la Menahan Street Band è composta da sorridenti ragazzetti pallidi. La Dunham Records è una sotto etichetta della Daptone che su questo tipo di recupero sta lavorando molto, basti pensare alla regina del revival soul Sharon Jones e i suoi Dap Kings, ma stavolta viene da chiedersi, indubbiamente, se non ci sia un limite molto evidente.
Diciamolo chiaramente: il disco è favoloso. Ci sono dei brani straordinari, penso all’apocalisse interiore di The World (Is Going Up In Flame), lo straziante e sgargiante blues di How Long, capaci, se ascoltati con il cuore e girando con la faccia verso il muro il calendario con la scritta grande 2011, di emozionare e stordire come tanti classici del passato. Si tratta, casomai, di rompere una resistenza naturale e iniziale ad una evocazione che si sospetta calligrafica. L’atteggiamento opposto infatti è quello di chiedersi perchè dovrei perdere tempo con un lavoro nostalgico quando ci sono infiniti capolavori sul genere da ripescare e rispolverare, diffidenza che si rinnova ad ogni strizzato urletto “Oh, Baby!”.
Ma forse esiste un altro atteggiamento da considerare. Se fosse uscito negli anni 60, dove la cifra stilistica qui riprodotta era dominante, questo sarebbe risultato a sorpresa un disco innovativo rispetto a come poi si è evoluto il Southern Soul. La distanza temporale e la consapevolezza storica ci permette di immaginare un percorso parallelo, dove l’elettrizzazione del sound non fa confluire tutto nel rock stonesiano o nell’esaltazione funkadelica del groove, ma rimane funzionale agli aspetti più roots tra Nashville e New Orleans. La Menahan Street Band fa ben più che accompagnare le performance vocali di Bradley, ad un ascolto attento l’impreziosimento strumentale è minuzioso e puntuale almeno quanto la riproduzione retorica. Se siano sufficienti l’intensità delle canzoni e del personaggio e i contributi musicistici innovativamente pre-moderni a stemperare quel fastidioso senso di “ripescaggio” attiene probabilmente solo alla pazienza di ciascuno, perchè credo che rotto il ghiaccio con una serie di resistenze legittime, qui ci siano davvero delle gemme che sarebbero arrivate a noi anche se scritte quarant’anni fa. Ma forse oggi le tratteremmo con una sufficienza di tipo diverso, ma altrettanto legittima.