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Maggio 2011 | In the Red Records | myspace.com/ohsees |
If I Stay Too Long
In un mondo discografico dominato dagli ammiccamenti dell’hype, dalle frivolezze glamour autocompiaciute e da dinamiche commerciali molto spesso impietose per le formazioni esordienti, il termine indie è stato completamente defraudato della sua valenza originaria, finendo applicato indiscriminatamente a band dal background tutt’altro che indipendente, spesso beneficiarie di budget produttivi faraonici e campagne pubblicitarie milionarie.
Sebbene pochissimi di voi avranno sentito nominare il californiano John Dwyer, costui resta uno degli ultimi baluardi dell’indie lo-fi a stelle e strisce, e il fatto che la sua missione nel folto sottobosco dell’underground perduri felicemente da quasi tre lustri, non può che far bene al cuore. Dalla militanza nei grandissimi Coachwhips (artefici di un garage-punkabilly-noise-pop tra i più incompromissori e sferzanti del decennio appena trascorso) alle numerose collaborazioni succedutesi nel corso degli anni (tra cui quelle, emblematiche, con Brian Gibson dei Lighting Bolt e il leggendario punk rocker di Memphis Jay Reatard), il nostro eroe è sempre riuscito a pubblicare quantità impressionanti di materiale conservando un livello qualitativo costante e una autonomia artistica invidiabile.
I Thee oh Sees sono la sua ultima creatura, esistono da circa 6 anni (sebbene all’inizio erano poco più che una copertura per le sperimentazioni casalinghe semi-amatoriali dello stesso frontman) e possono vantare una cadenza torrenziale di pubblicazioni (quasi un paio all’anno, tra live e lavori in studio).
Castlemania è l’album più personale dell’infaticabile e iperprolifico Dwyer, che qui si occupa sia della stesura dei brani che di suonare tutti i (numerosissimi) strumenti. Gli altri membri della formazione, compresa la storica cantante-collaboratrice Brigitte Dawson, vengono relegati da comprimari a poco più che turnisti. Il risultato, diciamolo subito, è il disco migliore e più compiuto della frastagliata carriera del gruppo, nonchè uno dei migliori (nel suo ambito di riferimento) di quest’anno. Partendo dalle sonorità dei precedenti Help e Warm Slime – un acid folk sbilenco imbastardito da ogni genere di asperità garage – i Thee oh Sees costruiscono, se possibile, una musica ancor più vulcanica ed ingovernabile rispetto ai loro standard, accentuando il già spiccato lato freak attraverso il ricorso ad arrangiamenti mai così ricchi, eccentrici e piacevolmente “stupefacenti” (in “pleasure blimps”, su un tessuto country blues sgolato e fracassone si ode persino lo scampanellare di un glockenspiel).
Tutti i brani si reggono su un perverso dualismo di umori e fonti che non ha timore di accostare lo stupore stralunato e fanciullesco di Donovan alle fetide esalazioni di un pantano incrostato di scorie surf ed esiziali vapori fuzz.
Questa schizofrenia si estende anche al connubio musica-testi, traducendo in suoni tematiche scabrose e ferocemente surreali con un piglio sornione, brioso e scanzonato. Siamo molto lontani, strutturalmente parlando, dalle sgangheratezze efferate e dissacratorie degli Holy Modal Rounders, ma lo spirito festaiolo, anarchico e beffardo che tiene banco(ne) è più o meno identico. Si va dai pezzi prevalentemente acustici come la ballad sardonica “i need seed” a scampoli di garage deturpato al limite della cacofonia (“corrupted coffin”) passando da piccoli gioielli di arrangiamento creativo (i synth, le trombe, l’harmonium e il flauto pastorale di “stinking cloud”, con delle linee vocali che farebbero la gioia dei Dogbowl) e bad trip in tenebrosi manieri medioevali (la title track). Perfino i cori celestiali e le armonie vocali sopraffine dei Beach Boys vengono trasfigurate nelle farneticazioni di un fricchettone sotto acido, senza perdere un briciolo di genuina verve pop.
In tanto marasma tossico non mancano gli omaggi alle gemme della psichedelia che fu, sottoforma di ben 3 cover collocate alla fine del platter (tra cui una bellissima versione lievemente abrasiva di “i won’t hurt you” della west coast pop experimental band).
Se vi ha un po’ indispettito la svolta pop dei Black Lips e sentite nostalgia del loro garage rock al vetriolo, siete sulle frequenze giuste. Un 8 come attestato di stima verso questi irriducibili filibustieri dello psych-folk in bassa fedeltà.