Lou Reed @ ItaliaWave – 16/7/2011

Attitudine e visuals: Pensando ai leggendari trascorsi di Lou Reed, a moltissimi verrà in mente l’immagine – ormai assurta ad icona pop warholiana – immortalata sulla copertina di “transformers”: un efebo tenebroso e decadente, soggiogato dal camaleontismo glam; occhi cerchiati di nero ed espressione trasognata che tradisce deliqui insondabili, come se ci si trovasse al cospetto di un diafano pierrot dell’oltretomba. Il personaggio perfetto per fare breccia negli interstizi più inconfessabili dell’immaginario collettivo, nonchè una delle più brillanti intuizioni ascrivibili alla lungimiranza e spregiudicatezza commerciale di David Bowie (periodo Ziggy Stardust). Quasi l’incarnazione feticistica del divo e del divismo, si direbbe, se non fosse che il Lou Reed di stasera ostenta una attitudine completamente agli antipodi rispetto alle origini. Nessuno può pretendere, oggigiorno, l’animale rock’n’roll da palcoscenico o il teppista stradaiolo che imperversava sulla copertina di New York, ma è comunque impressionante assistere ad un Lou così dimesso e pacificato, quasi anonimo nel suo gilet scolorito corredato di jeans sdruciti; quasi patetico nella vulnerabilità senile resa manifesta dalle movenze arrancanti e dagli occhialetti da vista. Eppure quando l’esibizione entra nel vivo e mi concentro su quell’inconfondibile viso di gomma, percepisco immancabilmente lo stesso fascino magnetico di una volta. Credo che non esista un volto caratteristico come quello di Lou Reed: la sua conformazione facciale, le asperità, gli spigoli, le rughe scolpite nella carne, sono il prodotto irripetibile di un’esistenza consacrata al demone del rock, in tutte le sue accezioni vitalistiche ed autodistruttive. Si tratta della stessa alchimia che ha preservato gli addominali di Iggy perfettamente intonsi: un fenomeno fisiologico innaturale per chiunque meno che per qualche mitologica rockstar. Merito di piccoli particolari come questo (senza tralasciare, si intende, l’indubbio mestiere e carisma dei musicisti coinvolti) se una potenziale rimpatriata di avanzi d’ospizio si trasforma in un’esperienza quasi ieratica.

Audio: Nonostante il set sia allestito all’aperto, nell’enorme stadio di Via del Mare, l’acustica è abbastanza limpida e avvolgente da valorizzare ognuno dei numerosissimi strumenti della “sweet tooth band”: contrabbasso, tastiere, sassofono, la monumentale batteria del veterano Tony Smith, e una viola suonata con un tale gusto da non far rimpiangere le evoluzioni e i funambolismi di John Cale.

Setlist: Lou Reed non si smentisce e dimostra di non prestare alcun riguardo alle aspettative del suo pubblico. All’appello mancano praticamente tutti i pezzi più celebri del suo repertorio solista, quelli che gli hanno valso la fama mondiale e l’adorazione di generazioni di platee rock. Nessun estratto da “Transformer”, dunque, ma neanche dal bellissimo e bistrattato “Berlin”. Per fortuna abbondano i ripescaggi dal periodo seminale con i Velvet Underground: meravigliosa ed ammaliante “Venus in Furs”, in una veste fumosa e rallentata all’esasperazione; sublime la versione acustica di “Sunday Morning”, talmente narcotica e trasognata da far pensare ai discepoli galaxie 500 e allo slow-core; d’una dolcezza disarmante e irreale “Femme Fatale” (ma sono dell’idea che senza il languore di nico resterà sempre monca), mentre irresistibilmente groovy si rivela il bis con le immancabili Pale Blue Eyes e Sweet Jane – quest’ultima nobilitata da un’intro nel solco di Steve Hunter. Il resto della scaletta pesca qua e là dagli album minori che hanno costellato il periodo tra la fine degli anni ’70 e i primi ’90: “Waves of fear” (dallo splendido “New york”), “Who loves the sun” e “Sensellessly Cruel” (collocate all’inizio, eppure sciatte, prolisse e senza nerbo), l’omaggio-epitaffio ad Andy Warhol “Smalltown” ( innervato da sferzate d’elettricità abrasiva), la cover lennoniana “Mother” (viscerale ma un po’ fuori luogo), “All through the night” ed una lisergica e dilatatissima “The Bells” (dall’album “Bells”). Menzione a parte per “Ecstasy”, un blues scarno ed anemico reso straordinariamente evocativo dalle carezze del violino e dall’interpretazione contrita, quasi elegiaca, di Reed.

Pubblico: Finchè Lou Reed non viene annunciato dalla speaker, l’affluenza all’Italia Wave è davvero esigua. La gente comincia ad affollarsi ai cancelli pochi minuti prima dell’esibizione, in file disordinate di decine e decine di fan scalpitanti. Moltissimi sono lì espressamente per il grande maudit newyorchese, ma l’impressione è che pochi abbiano ascoltato un suo disco per intero. Schiere di giovani e giovanissimi si attardano smaniosi alle bancarelle per acquistare “uniformi” recanti le fattezze del divo, tutte risalenti al periodo “Transformer”. Scambiando chiacchiere con alcuni di loro, realizzo che Lou Reed per le nuove generazioni è una sorta di status symbol musicale, conosciuto più attraverso il sentito dire e l’aura di maledettismo che ne ammanta il mito piuttosto che per la sterminata produzione artistica. C’è chi è rimasto folgorato da canzoni pescate nella soundtrack di Trainspotting o di quache altro cult giovanilistico, chi freme dalla voglia di sentire dal vivo qualche brano del disco “con la banana in copertina”, e chi è accorso solo per godersi le hit da stadio oceanico (“Walkin’ on the wild side”, “Perfect day”, “Vicious”,”Satellite of love”), senza sospettare quanto risentimento astioso Reed debba nutrire nei loro confronti, trattandosi di incarnazioni sonore della sua maschera più forzata e artificiosa: il frivolo manichino glam. La partecipazione si mantiene sempre su livelli emotivamente altissimi, sebbene, con tali premesse, è inevitabile una certa delusione strisciante al termine della prima ora di concerto, quando ormai è evidente l’assenza dei tanto sospirati classici. D’altronde il nostro eroe non ha mai fatto mistero del suo rapporto morboso e conflittuale col pubblico, connotato di amore, o meglio di necessità simbiotica, ma anche di distacco e malcelato disprezzo, a causa della tiepida accoglienza commerciale riservata a tutti i suoi dischi più intimi e personali (“Berlin” in primis). Visto l’andazzo della serata, è difficile contestargli la decisione di assecondare il proprio ego – per quanto rigonfio a dismisura – piuttosto che i gusti omologati e superficiali degli spettatori mainstream – la stragrande maggioranza.

Qualche considerazione separata va fatta sullo scarso successo generale di quest’edizione dell’Italia Wave. Gli artisti di punta, ovvero Lou Reed e i Verdena, sono impegnati in un tour italiano da diverse settimane, quindi chi aveva occasione di vederli altrove non si è certo sobbarcato un viaggio di centinaia di chilometri, dal nord o dal centro Italia, per raggiungerei lidi salentini – radiosi e suggestivi, certo, ma anche irrimediabilmente isolati rispetto al resto della penisola. Dispiace dirlo, ma la scelta di una location come Lecce per un festival così colossale ed impegnativo si è rivelata infelice. In simili circostanze, la provenienza del flusso di spettatori non poteva che circoscriversi ai dintorni pugliesi, come infatti è stato.

Locura: assente.

Conclusioni: Non un live indimenticabile, ma un’ulteriore esaltazione della personalità cangiante ed imprevedibile di Lou Reed, inguaribile “trasformista” anche a 69 anni suona(n)ti.

Foto di Giulio Farella