Alla soglia dei 500 cd in coda recensire mi sento di dire che proprio non sono d’accordo. Prendetela, se volete, come un rigurgito di nausea di fronte alla pila incombente di album e cartelle stampa in attesa di essere ascoltati e lette, ma continuo a non essere d’accordo. Intendo dire con chi incide un album e poi – “per promozione” – come motivazione ufficiale, lo mette interamente in download gratuito. Mi spiego meglio: non sto parlando della questione che riguarda prettamente il download, né di una questione di soldi. Sto parlando invece di quanto vale un artista o una band. Nel mondo della musica indipendente italiana, dove i soldi non ci sono e nessuno si è arricchito, si va avanti a favori e la moneta di scambio ufficiale è il baratto (“se tu mi dai una recensione io ti do un’ intervista”, “se tu me la dai, io ti do l’apertura al mio concerto”); il costo di un cd non fa più parte della classica equazione economica ricavo – costo = guadagno, ma in maniera più simbolica ne rappresenta il valore in quel dato momento storico.
Chi può permettersi di vendere i propri album a prezzo pieno ha vinto la battaglia delle bands, mentre chi decide di lasciarlo gratuito – secondo me – non ci ha nemmeno provato. E se in primis lui non crede che il suo lavoro possa valere anche solo 1€ da sborsare, perché mai dovrei crederci io come ascoltatore? Non credete invece che per una band indipendente che vuole farsi conoscere sia più lusinghiero avere il proprio album “piratato” on line da persone che lo volevano per davvero? Pensateci, prima di buttare nell’oceano di internet il lavoro per il quale avete risparmiato, sudato, e sul quale avete sputato l’anima nei mesi precedenti. Fatevi un favore facendovi venire in mente un’idea migliore per la promozione della vostra musica.
Da Bologna arrivano i Maybenot con l’Ep A Muro. All’ascolto il sound che la band presenta porta con sé chiare influenze a metà fra il brit (Jamie) ed il pop cantautorale (Vai via così ha una forte impronta alla Gazzè). I quattro brani, alla fine, mi lasciano la convinzione che dal punto di vista della produzione niente si possa obiettare a questo lavoro, ma che dal punto di vista dei contenuti questo progetto non proponga un bel niente. Partendo dal sound (solo in questa rubrica di band così ne avrò recensite una mezza dozzina), passando per il songwriting e finendo coi testi, non c’è assolutamente nulla che questa band riesca ad offrire all’ascoltatore. Testi generalisti, concetti diluiti, universali in maniera banale, l’immaginario è debole e la proposta artistica risulta in completo contrasto con quello che invece sta rendendo famose altre band italiane: l’espressione di idee e concetti attuali, circoscritti, tangibili e condivisi dalla gente in questo particolare momento storico. Quando anche a Sanremo quasi tutti i brani presentano riferimenti al male di vivere della generazione che va dai 20 ai 30 di questa Italia sull’orlo del baratro, vuol dire che qualcosa all’interno del pop italiano è cambiato e bisogna adeguarsi. Voglio essere chiaro con i Maybenot: sicuramente suonate meglio di Vasco Brondi, ma lui riesce a comunicare alle persone qualcosa, mentre voi, non dite assolutamente nulla.
Le basi contano. E la dimostrazione di questo è un lavoro come Hell Holes dei Metibla. One-man project di Riccardo Ponis, video maker romano, che con l’aiuto di altri elementi da band della scena post rock ed harcore della città (come Kardia ed Inferno) ha tirato fuori questa prima opera, dalle molte luci e dalle poche ombre. Come dicevo all’inizio, le basi ci sono tutte, e seguendo la filosofia di chi sostiene che gli ascolti “a monte” siano la base per poter produrre dell’ottima musica, in questo Hell Holes si sentono le influenze di grandi band come Velvet Underground, New York Dolls, MC5. Anche le canzoni ci sono: Crack, che apre il disco, ci introduce nello spleen che pervade questo album, rendendolo malinconico nella maniera giusta, non stracciapalle. Pezzi invece come Fool ci catapultano negli ambienti di quel movimento proto-punk americano degli anni ’60 e conferiscono una certa leggerezza all’ascolto che riesce a sdrammatizzare dei testi in inglese quantomeno nichilisti. In Spino, brano più virato verso l’alternative anni ’90 (fino ad arrivare a toccare artisti come gli Eels, come in Brand new one), trovo – dopo tantissimo tempo – un vero assolo di chitarra niente male. In generale i brani del disco viaggiano sulla media dei 4 minuti e mezzo, ma non risultano mai pesanti, grazie ad un songwriting intelligente ed ad una produzione che è riuscita ad assecondare la personalità dell’autore. D’altra parte, se proprio devono esserci delle pecche, potrei dire che l’interpretazione, la pronuncia (ed in certi casi proprio la grammatica inglese) avrebbero dovuto essere trattate meglio, perché se la parte musicale non presenta nei di sorta, la parte di scrittura dei testi grava troppo su queste dimenticanze. È un problema comune alle produzioni indipendenti, uno sforzo in più sarebbe stato gradito.
Davide Ferrario invece è la classica vittima dell’industria discografica italiana deviata: un bravo chitarrista con una buona band, gli FSC, che viene notato da Battiato, il quale li scegli come band di supporto, fino ad arrivare a Sanremo nel 2007. Poi Battiato continua giustamente a farsi un pacchetto dei suoi, la band comunque riesce a firmare un contratto per Sony, che decide di degradarli da musicisti a boy-band: la cosa chiaramente non funziona, la band di scioglie, Ferrario continua a lavorare come turnista per la Nannini e Pelù, poi decide di ricominciare da capo con questo album, dal titolo F.
Qui mi si apre un dilemma filosofico, come dovrei io prendere questo album? Lo so che non si può fare un processo alle intenzioni, ma davvero non dovrei tenere conto della storia pregressa di questo artista e decidere se quest’opera sia un nuovo inizio oppure solo un salvagente artistico? La scena indie sta diventando il nuovo mondo di quelli che non ce l’hanno fatta nel mainstream? Mah.
Vi basti sapere che quest’opera può essere sintetizzata come “un Benvegnù un po’ più pop” – una definizione totalmente calzante dell’opera. Compaiono sparsi qua e là per il cd questi innesti di elettronica che stanno diventando un vero e proprio trend (da Bugo al TdO li stanno usando veramente TUTTI), ed essenzialmente hanno la funzione di meri tappabuchi nell’ambito degli arrangiamenti. La vera sfida? Sarebbe stata presentare questo disco solo con strumenti acustici e tastiere, perché i brani si prestano. Promosso con riserva questo Ferrario, consiglio almeno un ascolto a voi lettori, io sinceramente preferisco non sbilanciarmi perché è un album furbo, che gioca troppo sul filo fra un pop nazional-popolare e la nuova leva cantautorale degli anni ’10. Scegliete voi da che parte stare.