Ci ho messo un po’ a scrivere questo Democrazia, lo devo ammettere. Il fatto è che ero confuso, per un attimo ho sentito di aver perso la via, di essermi fatto sfuggire dalle mani la MUSICA.
Per fortuna che la rete mi dà sempre nuovi spunti per scoprire, amare, parlare della nuova musica italiana e dei suoi mille piaceri.
I piatti forti di questo periodo sono stati dei grandi casi mediatici, degni delle migliori annate di Radio Serva. Ho letto di come Colapesce abbia deciso di farsi giustizia da solo sputtanando online il promoter di un locale. Poi ho letto dei Cosmetic che hanno dato del verme a Colapesce. Povia se la prende con Marracash. Agli Aucan si è rotto il furgone in Francia. I My Awesome Mixtape si sono sciolti (e Sellaband?). Ho letto di come Vasco abbia dato del coglione a Baglioni. E per festeggiare, Vasco si sposa. La Amoroso ha le corna, gliele ha messe Belen. Gli Afterhours sono stati cassati dalla scaletta del Primo Maggio per far cantare l’ennesima inutile cover di Strawberry Fields Forever da Elisa. Ho scoperto con sorpresa che la ragazza del video dei Club Dogo ha fatto un altro video super trash.
Aspettate, sento forse qualcosa di sottofondo, una melodia? No scusatemi, era solo il cellulare che squillava nell’altra stanza…
Ma iniziamo questa puntata. Sono i romani The Singers con il loro The Room went black (prima prova per il quartetto capitolino) ad aprire le danze. Già dal primo brano la band gioca a carte scoperte non lasciando nulla all’immaginazione, ma proponendo ben chiari i propri riferimenti musicali: si va dagli Arctic Monkeys agli Strokes percorrendo tutto il filone che ha caratterizzato la musica d’oltremanica dai Franz Ferdinand in poi, genere che è stato ampiamente sfruttato da tante altre band qui in Italia. Quindi chitarrine acide, produzione pulita (e freno a mano tirato), equalizzazione virata sui medio alti (e molto carente sui bassi e sulle parti di basso), batterie dai tempi disco con charleston suonato sugli ottavi, melodie della voce efficaci e… un pizzico di Editors per brani come 18:18. Non c’è molto da dire su un album come questo, che non ha guizzi né variazioni particolari per tutti e dodici i brani, ma è una eterna replica dello stesso episodio. La sensazione è che in quest’opera non ci sia nulla di sbagliato (e un pezzo come I bet ya (chakka-chakka) lo dimostra chiaramente), ma che sia anche un lavoro fatto col pilota automatico inserito. A livello di songwriting la band si ferma a riproporre i cliché del genere e manca totalmente di elaborazione personale, anche dal punto di vista della produzione. Le chitarre hanno il suono che ci si aspetta, le melodie le aperture sul ritornello che ci si aspetta e via così: niente sorprese, niente spunti, niente che stimoli i neuroni dell’ascoltatore. Il risultato è che il disco non regge la sua durata, diventando via via sempre più sciapo. Penso che questo sia un grave problema: rendersi unici è forse in questo momento la chiave per ritagliarsi un posto nella scena, e i nostri The Singers in questo caso hanno dimostrato di essere abbastanza sostituibili (dagli originali, o forse anche dagli altri colleghi italiani più ispirati?).
Da Ravenna invece arrivano i Kisses from Mars con il loro Birth Of A New Childhood. Senza dubbio la band fa riferimento al genere post-rock, avvicinandosi molto allo stile di band come gli Slint. Brani dal lungo respiro, chitarre rarefatte per la maggior parte del tempo e dinamiche altalenanti. Lo stile della scrittura risulta adatto al genere, ma forse pecca di semplicità per certi versi, o meglio si sente il bisogno, in brani come Sunset Of The Giant, di una lead guitar che riesca appunto a guidare fino in fondo il brano, che per la cronaca dura i suoi buoni sette minuti. Andando avanti nell’ascolto, ho la conferma che essenzialmente sono le chitarre ad essere carenti in questo album: da una parte poco fantasiose e dall’altra suonate con qualche incertezza. Insomma non all’altezza del ruolo che dovrebbero avere le chitarre in una band che propone un post rock spesso e volentieri anche solo strumentale. Eppure ci sono ampi margini di miglioramento per questa band, perché di spunti musicali ne presenta molti, basterebbe forse impegnarsi di più nella scrittura delle proprie singole parti. Purtroppo nemmeno la produzione aiuta questo album, rendendo il sound generale abbastanza confuso (riverberi dappertutto) e poco incisivo, in fin dei conti un vero peccato.
Il paradiso su Retequattro è invece il lavoro che presentano i Diva da Padova. Lo si capisce dal titolo che il lavoro di questi veneti oscilla fra il surreale ed il dissacratorio. Dalla copertina (con una Milly Carlucci d’altri tempi in calzoncini e pattini a rotelle) fino alla musica che accompagna la title track tutto urla revival, sarcasmo, dissacrazione delle icone pop dell’epoca più imbarazzante ma al contempo affascinante della nostra storia televisiva. E a questa attitudine si sposano perfettamente i testi e le intenzioni musicali della band. Un po’ Soerba, un po’ Rick Astley, mischiano la leggerezza del synth pop anni ’80 con variazioni sixties italiane. Ed hanno, a ragione, il diritto di prendere in giro il “cantautore che al terzo disco si fa crescere la barba”, perché come band rifuggono per molti aspetti tutti i cliché della scena musicale italiana. Etichettarli come “pop intelligente” sarebbe riduttivo, in realtà sembra che ci sia molto di più: traspare dai testi e dal songwriting ma soprattutto dagli arrangiamenti. Sebbene questo EP sia composto solo da tre brani, vi sono in realtà anche due versioni alternative della title track e di un altro brano, Narciso lava i piatti, che non solo rimpolpano il cd stesso senza essere dei meri riempitivi, ma stravolgono i brani in una versione “soft” ancora più geniale dell’originale! Questo piccolo lavoro è a dir poco azzeccato, e fa centro lasciando la voglia di ascoltare qualcosa di più dei Diva. Spero che un lavoro più lungo esca presto… In questo momento una band del genere manca all’appello della scena italiana.