Rufus Wainwright – Out of the game

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Chissà quanto glielo griderebbero volentieri, quegli ascoltatori un poco puritani e fautori di un songwriting lavato a secco: “Rufus, esci da quel corpo!” E non perché il fisico del nostro non vada, tutt’altro: è un figurino modello, l’ideale per farsi strada a forza di pose di dandy. Il punto è che Rufus Wainwright non ne vuole sapere di essere uno che scrive canzoni come tanti ce ne sono. È figlio di cotanti padre e madre, e appena si presenta l’occasione fa sfoggio delle credenziali dinastiche, quelle che invece imbarazzano la prole dei vari Dylan e Cohen – una figlia di quest’ultimo, Lorca, ha anche dato a lui e al suo compagno una bambina, come se dovesse mettere mano al nobile genoma pure quand’è d’altri. Quando non si diletta a risalire l’albero genealogico, allora cerca parentele putative nel repertorio di Judy Garland (riproposto dal vivo al Carnegie Hall) o addirittura nei sonetti del Bardo: tre brani nel suo ultimo disco, Songs for Lulu, portano la doppia firma Wainwright –Shakespeare. Insomma, capito il tipo?

Chiaro che in tutto questo costruire una mitologia di sé, le canzoni rischino spesso il secondo piano. Eppure il talento c’è, ed è innegabile, ben al di là delle “raccomandazioni”. Ecco, augurarsi che ad Out of the game corrisponda la volontà di uscire dal grande baraccone e abbracciare un più basso profilo può anche essere una pia illusione. Però è vero che è il primo lavoro di Rufus Wainwright in tanto tempo a non farsi ricordare per altro che non siano i pezzi in scaletta: nessuna dedica ingombrante, nessun concept ambizioso, qualche ospitata che non basta a distrarci, anzi talvolta serve a benedire la veste, per così dire, “sobria” del tutto (Nels Cline in Respectable Dive, quando il gioco si fa country).

Di memorabile c’è una title track di rara cantabilità, e il crescendo di Jericho, così intrigante da dimenticarsi per un attimo di quanto Elton John e quanto Freddie Mercury ci siano dentro. Di apprezzabile gli arrangiamenti che, anche con archi o con sintetizzatori, riescono a non annegare la scrittura cristallina in un’orchestrazione da Grand’Operà. Di commovente il finale di Candles. Perché sì, abbiamo mentito, la dedica in realtà c’era, ed è rivolta proprio alla madre Kate Mc Garrigle, da poco scomparsa: però è un pensiero sottovoce, che si fa bastare chitarra acustica e fisarmonica e che, crediamo, strapperebbe una lacrimuccia anche ai più austeri custodi del three chords and a thruth.