Attitudine e visual: Era il 2008, I Beach House, freschi di Devotion, si esibivano davanti a un centinaio di persone al Covo. Cinque anni dopo, la notorietà conquistata in Italia (fuori dall’ Estragon c’è una fila di quelle che non ti aspetti) gli impone la scelta di una sede da grandi occasioni (L’ Estragon, appunto). I Beach House non sono un gruppo da palazzetto dello sport, sia chiaro. Meriterebbero una location più intima, personale. Ma l’evento è di quelli importanti e non è il caso di farsi prendere da futili pregiudizi. I tre (la formazione live vede aggiungersi Daniel Franz alla batteria) si esibiscono su uno sfondo che richiama la copertina di Bloom rimanendo nella penombra, pienamente nel loro stile. Solo quando, raramente, le luci si fanno meno soffuse si riesce a dare una forma alle tre sagome nere che suonano sul palco. Victoria Legrand è al centro della scena, indossa con la consueta personalità una giacca nera con inserti rossi ed emana un fascino d’altri tempi. Comunque, che sia diventata un’ icona d’eleganza, non lo scopriamo certamente oggi. Nonostante le premesse, l’ Estragon si presta bene al gioco e l’atmosfera creata appare convincente. Sulla buona resa estetica pesa molto la bravura della formazione di Baltimora. Victoria e soci comunicherebbero un senso d’intimità anche suonando allo stadio olimpico. Quindi, poco male. (Da segnalare la breve apertura affidata alla voce e al violino di Marques Toliver. Stravagante e spigliato, strappa qualche applauso più per simpatia che per particolari meriti artistici).
Audio: Un’ acustica impeccabile che rende piena giustizia al talento compositivo del duo di Baltimora.
Setlist: Nella scaletta vengono eseguiti unicamente brani targati Bloom e Teen Dream, con la sola eccezione di Gila. Scelta abbastanza logica considerata l’accoglienza italiana di questi due ultimi album e la distanza siderale che li separa dai precedenti due. Bloom ovviamente viene suonato quasi interamente, con l’apertura affidata a Wild e Irene a chiudere. Non mancano grandi classici come Zebra, Norway, Walk In The Park. Difficile rimanere delusi.
Momento migliore: La coda di Myth: si accendono le luci, un coro unico di voci riprende il ritmo scandito dalla chitarra di Alex Scally. Coinvolgente. Take Care invece merita una menzione speciale (personale, forse). Un pezzo capace di comunicare una malinconia mista a speranza che dal vivo ti lascia solo ed estasiato nell’ auspicio che qualcuno si prenda cura di noi, prima o poi, In a year or two.
Pubblico: L’Estragon è popolato principalmente da gente under 30. Si vedono tante barbe, occhiali, maglioni colorati, Clark’s. L’hipster medio, per intenderci.
Locura: Poca, pochissima. I Beach House non parlano quasi mai se non per dedicare Silver soul a tutti i “Lovers” e per un rapido saluto ai reduci dal concerto del 2008. Anche le persone si lasciano andare raramente, rapiti dallo spettacolo che va in scena sotto i loro occhi. Oltre a Myth, timidi cori in Norway e Lazuli. Ma è giusto così. Siamo al concerto dei Beach House, siamo seri.
Conclusioni: I tre suonano per più di un’ora senza cali né sbavature, confermandosi una spanna sopra tutti i loro colleghi. Il loro dream pop coinvolge, stordisce, ti trascina in una dimensione eterea, fuori dal tempo. Durante tutto il concerto ho sperato di poter cogliere un immagine, una sensazione, qualcosa che riuscisse a sintetizzare la bellezza dello spettacolo a cui stavo assistendo. Verso la fine, fortunatamente, il mio proposito riesce a realizzarsi. Siamo agli sgoccioli, il gruppo sta suonando l’ultima canzone: Irene. Finita la strofa entra l’organo, dolcemente Victoria intona il ritornello: It’s a strange paradise, It’s a strange paradise. “E’ vero”, penso. E’ proprio vero.
Le foto non si riferiscono alla data recensita