Heaven’s Basement – Filthy Empire

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Determinazione, di quella che ti inietta velleità assolute come l’eternità. Di questo si parla, della sfrontatezza che sta alla base di una convinzione, quella di poter colmare il vuoto lasciato dalle grandi formazioni Britanniche.
È il cuore quello che ti spinge nei sobborghi per battagliare a suon di refrain con le frange più ostili di bevitori Albionici, quelli che un giorno, forse, costituiranno lo zoccolo duro del tuo seguito. Mi ricordo di aver letto da qualche parte qualcuno che definisse i Motley Crue come: “spazzatura votata all’eccesso e al successo, si ma con i pezzi”. Non dimentichiamocelo mai, non facciamoci fuorviare dall’appetibilità radiofonica della proposta – E non poteva essere diversamente con John Feldman alla produzione (Papa Roach, The Used, Black Veil Brides) -, anche qui come anni fa, e con le dovute proporzioni del caso potremmo dire lo stesso.

Certo, gli Heaven’s Basement mettono in atto un’attualizzazione di quegli stilemi  preponderanti nel periodo d’oro di certo Hard/Arena Rock dalle tinte Heavy, – Potremmo citare gli stessi Motley, passando per Dokken e Whitesnake – ma con una sostanziale differenza rispetto a band affini come Buckcherry – Votate ad un suono maggiormente legato al blues degli Aerosmith ed a certo boogie proveniente dalle corde di Angus Young -, ovvero la presenza decisa di una componente pop capace di donare maggior respiro – Non solo commerciale, ma anche – alla proposta. È un singolo dietro l’altro; “Welcome Home” apre come un monito, un avvertimento ai viaggianti, quel “Motherfucker it’s a new beginning!” dice tanto sulla sopracitata determinazione veicolata qui dal consolidato mestiere dello stop & go, che prima stordisce e poi conquista al passaggio del ritornello riempi stadio.

È solo l’incipit, buono come tappeto rosso da stendere per un singolo Fire, Fire capace di riassumere benissimo la passione dei nostri per le sonorità Eighties di genere, non che del pensiero alla base del lavoro. Dentro c’è di tutto, dall’apertura rullante alla Motorhead – Riproposti nella conclusiva Executioner’s Day che si protrae verso un breve cameo alla N.W.O.B.H.M – Nel cuore della band, per poi donarsi alla melodia, tanta melodia che culmina in chiusura tributando i Darkness. È a mio parere “Nothing Left To Lose” quella che riempirà le ugole dei fan con accendino perennemente acceso, e I Am Electric quella che farà emergere dalle file di fondo i fan più duri e puri. È ovvio che in tutto questo, non possa lasciar passare impunita Lights Go Out In London nella quale la melodia si mangia tutto il resto e la somiglianza con certi successi della nanetta mainstream Pink diventa insopportabile.
Ma credete di poter fare davvero una buona torta senza rompere qualche uovo?.