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1 Aprile 2013 | Sub Pop | Mudhoney | ![]() |
1983, Green River e poi la diaspora. Chi per approdare a casa Vedder e gustare la famosa torta di peyote di nonna Pearl (Pearl Jam, Ndr) chi, Mark Arm e Steve Turner, per gettare in egual modo le basi per quella che più tardi definiremo Grunge scene; ma da una prospettiva diversa, quella del punk, del Sixties Garage e dei film di Russ Meyer (Mudhoney 1965, Ndr).
Sono passati venticinque anni dal 1988, ventiquattro dall’omonimo debutto apribile a finestra sotto Sub Pop, ed oggi è giusto esprimersi in termini di mito, di leggenda, quando ci si accosta all’arte del fango e del miele.
Vanishing Point non fa eccezione, solido anch’esso nel promulgare quell’acidità punk che gettò nel “Nirvana” dapprima la cittadina di Seattle, per poi conquistare consenso mondiale. È un mantra consolidato che si dipana fiero dei suoi riferimenti, siano questi provenienti dalla Detroit dell’iguana (“I Like It Small”, “The Final Course”, “I Don’t Remember You”, ), o dalle Radio Birmane di stanza in Australia ai tempi della rivoluzione del ’77 (“What To Do With The Neutral”).
Un disco nel quale si possano pigliare schiaffi hardcore (“Chardonnay”) per poi ricongiungersi nell’incredibile vampa di riferimenti celata dietro “In This Rubber Tomb”. Un sabba nero che incontra le dinamiche di quel capolavoro posto sul retro del “7 di “Touch Me I’m Sick”, sapete esattamente di cosa sto parlando. Suonano a fine maggio al Viper di Firenze, è d’obbligo farci un pensierino.