Woodkid – The Golden Age

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E il suo animo gemente,
contristato e dolente
una spada trafiggeva.
(Stabat Mater, Jacopone da Todi)

Il passo di Woodkid nella musica contemporanea è tutto fuorché felpato; è rumoroso, incidente, e musicalmente significativo. Vi è qualcosa nella sua arte che si lascia assaporare come un poema epico. Woodkid concretamente è solo un uomo: Yoann Lemoine. È francese, sulla trentina. Il suo nome è già stato consacrato grazie al successo registico determinatogli dai vari video girati per Katy Perry, Lana del Rey e Taylor Swift. A livello artistico però è qualcosa di più. È Antony and the Johnsons che collabora con Tolkien. È pura introspezione e al contempo astrazione.

Woodkid attraverso la musica riesce farci sognare, ed è un sogno infantile, puro; un gioco. Come quando da bambini combattevamo sul parquet con i soldatini alti massimo quattro centimetri, inventandoci terre inesplorate, lontane dalla nostra periferia. Scatenavamo scontri sanguinolenti, storie di abdicazioni e rivolte popolari al solo comando del nostro volere. In queste guerre però a scorrere non era il sangue dei combattenti, ma il nostro tempo, la nostra infanzia e trasognata incoscienza. L’esordio di Woodkid ci riporta a quelle nostre piccole battaglie di plastica, che ora ci trafiggono con il loro ricordo più di una spada acuminata. Ne emerge un mondo di lotte. E non importa che siano composte da guerriglie armate (Iron) o siano invece guerre civili, interne all’animo umano (come ad esempio l’accoppiata Run Boy Run e I love you), dove i sentimenti si fanno fazioni di due eserciti pericolosamente armati.

The Golden Age è un collage cinematografico di amori e terre madri, di tristezza e scenari onirici. È l’odore della polvere che si alza dalla terra quello che s’intravede fin dall’omonimo pezzo che fa da apertura al disco: una volteggiante gonna di sabbia, che, se per alcuni era solo simbolo di siccità, riprendendo De André, qui invece si trasforma prima nello sfondo di uno scontro epico, poi nel ricordo lacrimevole di mille vittime.

Verdun è solo un ricordo. La battaglia si fa cruenta; il suo procedere è dettato dalla sezione ritmica: si sente il battere dei piedi sporchi sulla terra, finché questi saranno in grado di reggere il peso di un corpo e di una vita. Allo stesso modo il percuotere delle spade sugli scudi arrugginiti si fa incessante in attesa del decreto dello scontro. Che sia morte, che sia vita. Nel frattempo però l’amore ci strazia (Whatever I feel for you / you only seem to care about you / is there any chance you can see me too? / Cause I love you), le domande ci pressano (Are we intrument of fate ? / Do we really have a choice ?) e le soluzioni ci abbattono con la consolazione che prima o poi scorderemo ciò che ancora non abbiamo compreso (We threw our hearts into the sea / forgot all of our memories). E nella guerra – e che cos’è se non la vita? – tra gli uomini vi è chi prega (Stabat Mater), e chi paga caro il prezzo per il ritorno a casa dalla propria amata; chi incoscientemente fugge, e chi racconta della propria desolazione e personale sconfitta (simbolo storico che si fa universale): Ricordo le campane, i fiori.  Quei giorni stanno morendo nel buio. Ragazzo, ero stato modellato per la furia; ora pago il prezzo del vizio della razza umana. Mi era stata promessa la fine gloriosa di un cavaliere. Ma la corona è fuori dalla mia vista.” (The Other Side).

Un disco che parla di tutto questo. Quattordici tracce che trasudano di amore e dolcezza, modellate sotto la mano benefica di un pop orchestrale che rende il debutto di Woodkid uno dei più belli che mi sia capitato di ascoltare dai tempi di Funeral degli Arcade Fire.

E tra le braccia di una rabbia infinita, si concluderà la storia di un soldato nell’oscurità (The Other Side)