Lana del Rey @ Palaisozaki – Torino – 03/05/2013

Attitudine e Visual: L’hype, neanche a dirlo, era alle stelle: Lana del Rey, la neo-Diva del pop a stelle e strisce capace di ammaliare schiere di fan in tutto il mondo col suo fascino retrò e vagamente decadente, arriva nel Bel Paese per raccontare al pubblico italiano la sua Dolce Vita, accolta da una Torino reduce dalla grande abbuffata jazz del TJF.
Prestissimo, in un Palaisozaki ancora semivuoto e su di una piccola porzione di palco non coperta dal sipario ad hoc, prendono posto i Kassidy: apertura affidata al folk-rock “facile, facile” degli scozzesi, nell’onesta ma opaca mistura Mumford&Sons, R.E.M. bucolici, Nickelback e sempreverde (?) tradizione folk’n’blues delle Americhe. Dimenticabili, oltre che totalmente fuori contesto.
Lights out e Scarface theme per l’incipit di uno dei main event più attesi dell’anno: Lana del Rey sale sul palco nel tripudio di una folla adorante, provocando evidentemente quel  particolare sbigottimento misto a curiosità che i personaggi più in vista dello showbiz suscitano se visti in carne ed ossa. Avvolta in un tubino bianco mozzafiato, la languida “Lolita del ghetto” – come è stata definita – indossa l’ormai tipica corona di fiori, anch’essi candidi, aggirandosi con grazia eterea lungo lo stage, agghindato con fare Anni ’20 con un gusto che evoca lo spettro sfarzoso e (poi) decadente del Grande Gatsby. Un’immaginario per certi aspetti simile a quello della scomparsa Amy Winehouse, in bilico tra art déco e Hollywood, Tiffany e Marilyn Monroe, con una gazza ladra (finta o impagliata, chissà) a scrutare gli spettatori con nel becco una collana di perle.
Estetica al servizio di contenuti? Annosa questione.

Audio: Diciamo a chiare lettere: la voce Lana del Rey merita d’essere ascoltata anche dal vivo. La resa del particolare timbro in bilico tra luce ed ombra, falsetto e cavernosità della “principessa del pop amata anche dal pubblico indie” poteva alimentare i soliti dubbi del malpensanti, invece le algide atmosfere del disco sono squisitamente riproposte on stage, senza pressoché nessuna sbavatura, sia da parte dei musicisti (una buona formazione di stampo – o apparenza? – quasi soul) che della front-woman.

Setlist: Sì, a ben ascoltare. A partire dall’ormai celebre “my pussy taste like pepsi cola” (col quale si apre il concerto) Lana del Rey sembra portare avanti una sua personale ed ambigua way of life, fatta di provocazioni puerili e disincanto post-adolescenziale. Un particolare sincretismo 2.0 che viaggia nel passato per uscirne con una carica sloganistica che sembra fatta per i cinguettii della generazione Twitter. Born to die – il multimilionario esordio della cantante americana – è saccheggiato praticamente in toto. È questa per ora l’interessante, bisogna dirlo, fotografia del mondo filtrata Lana del Rey. Le hit ci sono tutte, non preoccupatevi. Videogames (“avevo voglia di cantarla con voi in Italia, what a great audience!” sussurrerà), Ride (con l’intro lunghissima del videoclip ma senza il cambio abito se sembrava presagire), l’esotica ed intensa Carmen, la rilettura di Knocking on heaven’s doors. Il tormentone “Blue Jeans…James Dean”, a ben vedere la rima più celebre dell’anno appena trascorso. Nel sex symbol “bello e dannato” ricollegato al denim per antonomasia Made in U.S.A. troviamo un ben orchestrato mondo di amori malsani, periferie chic, marinai tatuati e pin up consacrate agli acidi della Beat generation. Fino alla chiosa di National Anthem.

Locura: … che diventa locura, purtroppo con risata amara, perché il finale del concerto accumula un minutaggio spaventosamente ampio in una coda strumentale nella quale Lana scende dal palco e si concede alle prime file per firmare autografi e scattare foto-ricordo. Ora, per quanto ammirevole la disponibilità, chiudere in questa maniera appesantisce non poco lo show, con la folla – anche i fan più innamorati- un pò perplessi dal quarto d’ora di “parcheggio” in attesa di un’altra canzone (per chiudere col botto?) che non arriverà. Scelta più che altro strana…

Pubblico: Numericamente ci si poteva aspettare qualcosa di più: un Palaisozaki affollato risulta comunque lontanissimo dal pienone, in parterre come tra gli anelli. È forse il segno che in un paese musicalmente “arretrato” come tristemente continua a palesarsi l’Italia, anche i grandi fenomeni mondiali non possono competere con le starlette italiote fuoriuscite dai talent e una Emma Marrone qualunque tirerà sempre molto più (anche) di una Diva in auge? Il non indifferente costo del biglietto ci lascia il beneficio del dubbio.
Nello specifico l’audience è quanto mai eterodosso, innanzitutto anagraficamente: per alcuni sembra essere il primissimo concerto abbinato al primo poster in cameretta, percorso uguale-e-contrario per i numerosi genitori che accompagnano i figli. Fetta più ampia relegata al pubblico del pop di buona fattura rispetto a tanta merda imperante on air, con consistente coefficiente di hipsterismo. Look da hippy trendy di nuovo tra noi.

Conclusioni: In un’epoca di star usa-e-getta non è facile cablare la reale portata – a lungo termine – dei grandi fenomeni pop, nel campo minato assoggettato alla macchina mediatica odierna dal quale non è certo immune il music business.
La versione di Lana del Rey è interessante e valida sotto il profilo artistico – in uno scenario di pop di massa – con la sua vena malinconica inerme e glamour, tra retromania soul patinata e realismo (se non pessimismo) pop: dietro alle labbra rosso fuoco c’è il volto della generazione che ha perso ogni ideale e che guarda al passato come fascinazione vintage d’estetica e purezza? Sono i dubbi, le ipocrisie e le strategia commerciali (?) di una società sul punto di schiantarsi, con stile, come Gatsby. Il cangiante e milionario fallimento del sogno americano? Estetica e contenuti, oggi entrambi a portata di click: a lato della (voluta) pappardella, le meravigliose foto targate Rocklab.

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