Tra parodia pulp e non-sense western: Diritti all’Inferno!

Partiamo dal furgoncino malconcio e sporco di fango del Mississipi dei Black Keys e dal video-tormentone di “Lonely Boy”, filastrocca irresistibile che sembra galoppare fianco a fianco con il bolide rosso-fuoco del telefilm Hazzard, per arrivare “Diritti all’Inferno”: folle lungometraggio datato 1987 diretto dall’outsiders della regia Alex Cox. Tappa obbligata nella casbah rock’n’roll dei Clash, già evocata da un titolo che riprende quella “Straight to Hell” contenuta nell’incendiario “Combat Rock”, sesta fatica discografica della band di Joe Strummer.
L’ironia, l’humor provocatorio e la surreale (quanto disarmante) semplicità dell’invasata danza rockabilly dei Keys, sono il collante anche della pellicola di Cox, una sorta di astruso spaghetti-western che sembra fare il paio con le “commedie sexy all’italiana” tanto amate da Quentin Tarantino, almeno in quanto a budget e attitudine lo-fi: nell’anno in cui il regista che ha sdoganato il “pulp” nel mondo cinematografico approda al suo tanto cercato omaggio al western nostrano – con l’epica cowboys filtrata gangsta di “Django Unchained” – ripescare il grottesco cult movie di Cox fa ancora più sorridere.

Il film diventa una parodia a tinte forti dei classic movie del vecchio West ma anche un pretesto per (sor)ridere delle doti recitative di alcuni musicisti più o meno famosi, molti dei quali al primo ciak ufficiale: la “star” indiscussa è Joe Strummer, al quale viene cucito addosso un ruolo “perfetto” di sciatto, sporco e “marcio” pistolero/punk rocker. Che dire della (romanzata?) diceria che vedrebbe Strummer, fedelissimo al suo personaggio (o a se stesso?!), non lavarsi né cambiarsi d’abito per l’intera durata delle riprese? Devozione. E cosa risponde il pubblico femminile alla dichiarazione di un’attrice del cast che vide nel leader dei Clash un “Humphrey Bogart, solo più giovane e trasandato”? A suo modo un sex symbol.
Affiancato da Dick Rude e Sy Richardson, veterani al fianco di Cox (il primo girerà un documentario proprio sui Clash, il secondo apparirà in molti b-movies), Strummer – come detto – non è l’unico volto noto del music business presente nel film: dalla reginetta della disco-music Grace Jones allo sdentato vocalist dei The Pogues Shane MacGowan, passando per una sfattissima Courtney Love in (finta) dolce attesa, le figurine illustri in mano a Cox sono – in quanto a prestazioni attoriali – una peggio dell’altro. Meravigliosamente una peggio dell’altro, s’intende.

Mettiamo tutti al loro posto: Strummer-Rude-Richardson sono tre goffi rapinatori che si trascinano dietro una valigetta piena di soldi ed un ostaggio, l’ingovernabile gestante (Courtney Love) in vestaglia. In maniera decisamente rocambolesca, perdendo continuamente soldi dalla valigetta semiaperta (!) i quattro arrivano in un villaggio che sembra riportare ad una periferia pre-urbanizzazione di Las Vegas, un paesino – dimenticato da Dio – sperduto nel deserto popolato da strambi cowboys caffeinomani. Sì, avete letto bene: l’intero clichè del narco-traffico di droga (con i relativi eccessi, abusi e crisi d’astinenza) è qui filtrato attraverso la moka in un delirio iper-attivo di dipendenza dalla caffeina! I tre nascondono i soldi in cima ad una collina e provano a dialogare con l’ottusa comunità dalla quale sono inizialmente accolti con diffidenza: tra un “movimentato” banchetto cadenzato dalle note dei McMahones (sorta alter-ego mariachi dei The Pogues), bizzarri giochi di seduzione da cartoon stereotipato, esplosioni e battute ad effetto (almeno quanto senza senso!) si arriva alla lunghissima sparatoria del finale, una spassosa carneficina che per minutaggio ed iperbole evoca l’inarrivabile inseguimento dei Blues Brothers tallonati da decine e decine di volanti della polizia!.

Inutile dire che sono due mondi distantissimi quelli che trovano comun denominatore nelle sparatorie di Sergio Leone: è un improbabile incontro-scontro tra la Jon Spencer Blues Explosion e gli Squallor quello che evochiamo per gioco accostando Tarantino e Diritti all’Inferno. Ma a divertirsi (rispettosamente) è soprattutto Cox stesso, laddove giocare fa rima con omaggiare: impossibile non pensare all’accoppiata “benedetta da Ezechiele” di Pulp Fiction (Vincent Vega/Jules Winnfield) guardando comportamenti e look dello sgangherato trio di fuggiaschi in giacca e cravatta.
Certo, volendo evidenziare un ipotetico (e più “adeguato”) asse filmico, la sceneggiatura e la resa decisamente “gonfiate” di Diritti all’Inferno ricordano il cinema “grasso” di Robert Rodriguez (amico e più volte collaboratore dello stesso Tarantino, considerato non a caso una sorta di seguace in salsa messicana del pulp del Maestro): tra una battuta ai confini della realtà e l’altra, manca solo di veder spuntare fuori da qualche locanda malfamata Mr. Danny Trejo!

Insomma Straight To Hell rientra in quelle produzioni costantemente in bilico tra il sagace non-sense e la “cagata pazzesca” (cit. fantozziana), da qualche parte a gozzovigliare sul cucuzzolo dell’Arabian Mountain che fu dei Black Lips, il mariachi romantico portato sullo schermo da Antonio Banderas e l’etno-punk smargiasso (ma poetico) dei The Pogues. Omaggio scanzonato e canzonatorio, che non manca l’appuntamento con la prima qualità che un prodotto del genere deve interiorizzare: l’autoironia.