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16 Aprile 2013 | WarnerBros | flaminglips.com | ![]() |
Dopo quasi trent’anni di carriera, minacciose nubi esistenziali iniziano a gettare ombre inquietanti sulle lande di quella personalissima isola-che-non-c’è che, soprattutto nell’ultimo periodo, i Flaming Lips sono stati soliti esplorare. Ciò però non li distoglie da quella che è inequivocabilmente la loro missione di vita: percorrere tutte le vie possibili della psichedelia attraverso il linguaggio musicale.
Sin dall’inizio della loro carriera (che per farvi capire con chi abbiamo a che fare, è iniziata con degli strumenti rubati in una chiesa) Wayne Coyne e soci sono sempre stati facilmente identificabili come un gruppo di sperimentatori pazzi: sia sul piano sonoro, contribuendo a plasmare quel sound “sonico” sviluppatosi a cavallo tra gli anni 80 e 90, sia, in maggior misura, su quello lirico. Le loro canzoni traboccano di titoli e testi che si potrebbero molto riduttivamente definire visionari, di quel tipo derivato da una naturale indole iconoclasta e un consistente uso di droghe, rigorosamente a scopo ricreativo (Coyne dixit). Questa loro coerenza ha pagato, tanto da portarli a incidere per una major (la Warner Bros); avvenimento che ha permesso loro, oltre che di sfornare album di maggiore successo commerciale, le più svariate e fantasiose strampalerie. Ad esempio un album quadruplo (intitolato Zaireeka) da ascoltare rigorosamente in contemporanea su quattro impianti, la cui nascita è l’effetto di sperimentazioni applicate alla forma live, realizzate con iniziative speciali per i propri fans. Una di queste sono i parking lot experiments, che consistevano nel far riprodurre simultaneamente a quaranta di loro dalle proprie autoradio in un parcheggio al chiuso dei nastri incisi per lo scopo; oppure i boombox experiments, cioè la riproduzione in un auditorium (sempre da parte di fans selezionati) di 40 nastri, sempre in contemporanea, su altrettanti ghetto blaster radiocomandati. Sempre nel filone della sperimentazione applicata al live non si possono non citare i loro concerti: sul palcoscenico gente selezionata tra il pubblico balla vestita con costumi che potrebbero essere stati concepiti da un bimbo in trip iperglicemico, valanghe di coriandoli vengono sparate a intermittenza sul pubblico, megaschermi proiettano immagini a effetto specchio infinito, e se ancora non bastasse, Wayne Coyne passeggia in una bolla di plastica sulle teste degli spettatori. Il ritratto dei Lips non si può definire completo senza parlare di altre due loro pazzie su disco: un album-cover di The Dark Side of the Moon in chiave electro-sonica, in collaborazione con Stardeath and White Dwarfs, Henry Rollins e Peaches, e un altro album costituito da un’unica suite di sei (!!!) ore, che è la summa di tutti i generi di musica che hanno avuto come obiettivo più o meno dichiarato quello di espandere le percezioni mentali. Il titolo, quantomai azzeccato ed esplicativo, è Strobo trip.
La festa però si sa, non può durare per sempre: passata la fase di spensieratezza, di bagordi giovanili e di concerti dispensatori di allegria e divertimento, anche per i Lips, e in particolare per quel novello Peter Pan che è il loro leader, arriva il momento di fare i conti con gli anni che passano e con fisiologici dubbi e inquietudini esistenziali. Da alcune interviste rilasciate da Wayne Coyne sembra proprio ci sia questo alla base della loro inversione di rotta nel lato oscuro della sperimentazione sonora, che ritroviamo con l’ultimo uscito, The terror. Titolo forse un po’ iperbolico per descrivere lo stato in cui l’eccentrico leader del gruppo dice di trovarsi in questo momento della sua esistenza, ossia quello di chi come lui è riuscito a realizzare tutti i suoi sogni, e giunto a questo punto della vita si chiede: “…e adesso?”
Dopo la triade The soft bulletin – Yoshimi battles the pink robots – At War with the Mystics, in cui la facevano da padrone melodie orecchiabili e arrangiamenti orchestrali che richiamavano alla mente i Beatles e i Beach Boys dei rispettivi periodi più lisergici, già con Embryonic e ancor di più con quest’ultimo disco il sound dei Flaming Lips ha avuto un evidente mutamento. Altro indizio forse un po’ meno plausibile, ma che potrebbe essere affascinante, delle motivazioni di questa virata, potrebbe essere il fatto che l’album è stato concepito da session rigorosamente notturne durante l’incisione di Flaming Lips And Heady Fwends.
Dunque niente più archi e arrangiamenti solari; al loro posto chitarre graffianti, sintetizzatori cupi, effetti sonori spettrali e abrasivi lungo tutta la durata dei brani, voci metalliche e cori dal mood decisamente gotico e oscuro. La sezione ritmica è stata decisamente ridimensionata, e affidata quasi unicamente a dei loop di sottofondo, con l’eccezione dell’introduttiva Look…. the sun is rising, la title track The terror e al finale in crescendo di Always there in our hearts, scandita per il resto da tonfi molto lugubri con una cadenza dilata.
I titoli delle canzoni inoltre evocano argomenti e sensazioni tetre e pessimiste, decisamente inusuali rispetto ai titoli bizzarri e non-sense a cui eravamo abituati; ci sono riferimenti ripetuti, anche in chiave metaforica, alla solitudine, al disagio, al dolore: “You are alone”, “Butterfly, how long does it take to die”, “Turning Violet”. Anche quei pezzi che sembrerebbero voler richiamare un minimo di ottimismo racchiudono in sé parole quasi strazianti; ad esempio Be free, a way, che si apre con questi versi dal sapore crepuscolare: “Did good, baby, so we can go/The time right now, thing is/The sun shines now but we’re so alone/It’s not, this not, the light that shines”.
Oltre all’opera musicale in sè, è molto coraggioso il corso intrapreso dei Flaming Lips: giunti a questo punto della propria carriera musicale anziché cedere all’ipocrisia e adagiarsi nell’ostentazione dell’immagine che ha dato loro il meritato successo commerciale i Lips scelgono la via dell’intimismo, senza per questo snaturarsi, ma anzi mantenendo quell’approccio musicale che evidentemente è a loro più congeniale: quello del trip sonoro, abilmente adattato alle diverse pulsioni creative di questa fase e con un risultato che comunque non sarà troppo traumatico per gli aficionados di questa band.