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12 Marzo 2013 | Partisan Records | JohnGrantMusic.com | ![]() |
John Grant non è mai stato un tipetto equilibrato e non ha perso occasione di dimostrarlo in Pale Green Ghosts, suo secondo album, seguito dell’ acclamato Queen of Denmark. Fosse stato uno equilibrato, appunto, avrebbe rispolverato il pop colto dell’esordio, avrebbe affidato nuovamente la produzione ai Midlake, artefici tutt’altro che secondari della sua rinascita. Invece John, cantautore dai trascorsi tormentati, ex frontman dei Czars, prende un’altra strada.
Il riecheggiare di un passato complesso e le ansie per il futuro lo portano a registrare in Islanda, a Reykjavik, affidandosi a Biggi Veira dei GusGus per la produzione. La scelta del leader della formazione house islandese non è casuale. John ha deciso di dar spazio alla grande assente in Queen of Denmark: l’elettronica. Lui stesso non ha mai negato l’amore per gli anni ’80, gli Ultravox, i New Order. In questo senso Pale Green Ghosts, l’opening\title track, è chiarificatrice: synth pop puro, mentre la successiva Black Belt si spinge anche oltre, con grancassa e voce a scandire un ritmo che si avvicina molto alla definizione di dance. Tasto pausa, doverose riflessioni: non farà sul serio? Che fine hanno fatto il piano, gli archi, le ballads, i Carpenters? Mentre tento di abbozzare qualche risposta parte GMF: eccolo il Folk, eccola la ballad, eccolo un pezzo tipo Where The Dreams Go To Die! Proprio questa dicotomia fra brani che richiamano Queen of Denmark ed altri spiccatamente elettronici caratterizza tutto il disco. Però, se in pezzi come GMF John dimostra d’essere pienamente a suo agio, lo stesso non vale quando tenta la via dell’elettronica. Sta in questo continuo oscillare fra le certezze del passato ed un synth pop che non convince, la maggiore debolezza dell’album. Non è un problema di disomogeneità sonora, ma qualitativa.
A livello di songwriting invece permane la straordinaria capacità di raccontare un vissuto difficile, toccando temi come la sieropositività (Ernest Borgnine) e l’amore omosessuale (It Doesn’t Metter To Him) in maniera schietta e, a volte, (auto)ironica (vedi I Hate This Town). Nonostante ciò, Pale Green Ghosts resta un disco spiazzante, schizofrenico, che in qualche modo rappresenta un mezzo passo indietro rispetto al suo predecessore. Ma non è il caso di sorprendersi, in fondo lo sapevate già: John, equilibrato, non lo è mai stato.
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