Reviewlution: Daft Punk – Random Access Memories

La Reviewlution più attesa dell’anno. Per un legittimo esercizio di transitività, ci consentirete. “Album più atteso dell’anno” è infatti l’introduzione alla tipica recensione di Random Access Memories, nuovo lavoro dei Daft Punk dopo 8 anni. Ormai l’avrete atteso, ascoltato, letto, discusso, digerito, magari messo da parte e magari ripreso. E’ il momento quindi di fare il punto sulla nuova fatica del duo francese che, a dispetto una generale ovazione, non ha mancato di far discutere.

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La media dei voti in sede di recensioni è, infatti, a dir poco lusinghiera, con magazine di lungo corso come NME, Q e il Daily Telegraph che si giocano il jolly dell’en plein, del 10 su 10, e del “masterpiece”. Solo un pelo più cauti gli onliner più accreditati come Allmusic.com (4,5/5) e Pitchfork (8.8/10). Poi una sfilza di 8, da Rolling Stone al Guardian e tanti altri, compreso il mitico Anthony Fantano nel suo The Needle Drop. Pochi a limitarsi alla sufficienza  (The Quietus e Sputnikmusic) ma quasi nessuno osa andare sotto. Nella critica italiana, pur sulla linea della generale approvazione, si registra più cautela salvo nelle due specializzate più patinate Rolling Stone con il 4,5/5 di De Luca e XL con l’8,5/10 di Guido Biondi fino al 9/10 di un inebriato Gianni Poglio su Panorama. Qualche scettico illustre (Damir Ivic su Il Mucchio lo liquida con un 6) e la stroncatura sui generis su Vice ad opera di Demented Burrocacao (Più Draft che Daft. Più Prank che Punk).

random-access-memories1Attesa: un vuoto da riempire

Come per tutti gli album molto attesi, le recensioni sentono il dovere di soffermarsi sul senso di quest’attesa e su come ermeneuticamente influisca sul giudizio del disco. Doveroso ma spesso stucchevole.

Fa quasi tenerezza Jordan Rothlein di Resident Advisor (4/5) quando inizia la recensione dichiarando di aver mancato di 12 ore il lancio del disco su iTunes e di sentirsi come in ritardo ad una festa, soprattutto per il pullulare di giudizi (per lo più negativi) che erano su Twitter già parecchio “induriti” nonostante non potessero che derivare da 3-4 ascolti.

Primo grande risultato, da non sottovalutare, di RAM secondo Alexis Petridis su The Guardian, è di riuscire a resistere all’impatto della grande campagna di marketing, che ne ha gonfiato l’attesa, merito esclusivo della sua effettiva capacità di emozionare.

Un po’ la linea di Gabriele Marino su SentireAscoltare “Che dire che non sia stato detto di questo disco subito mitologicizzato e subito issato a totem polemico ? (…)I Daft Punk, gli sdoganatori, i moltiplicatori di pani e di pesci, i condensatori di immaginario. Tutti ingredienti, questi, che annunciavano un disco schiacciato dalle attese (che fanno rima con delusione), dall’hype, dall’entusiasmo o dal rigetto a prescindere. Dal contesto, insomma. E invece diciamo subito: dei tanti miracoli possibili (…) questo disco compie almeno quello di non restare schiacciato dalla sua storia esterna ed essere degno oggetto di discorso di per sé.”

“Eviteremo la solita tiritera su quanto questo disco sia stato atteso”. Provano invece a stagliarsi Alberto Asquini e Giuliano Delli Paoli su Ondarock (7,5/10). Ma poche righe e cadono nella tentazione musico-sociologica: “L’ hype/isterismo di massa che ha accompagnato “Ram” coglie bene un nodo centrale di tutta la faccenda. E cioè quanto i Daft abbiano rappresentato per una generazione cresciuta a pane, blog,soulseek, cassettine di RadioDeejay e bitrate di bassa qualità. Generazione che ha fatto di tutto questo la sua colonna vertebrale e la sua ragion d’essere. Ecco i Daft Punk, questa moltitudine di ascoltatori voraci, prima isolati tra loro, l’hanno resa e fatta massa.”

E non sono gli unici. Curioso il caso contrapposto di Damir Ivic su il Mucchio e Marco Pipitone su Il Fatto Quotidiano. Entrambi critici (anche se Pipitone si avventura in una vera stroncatura) ma uno in difesa della club culture, dalla quale sconfessa il duo francese, e l’altro issandoli ad alfieri della stessa, i Daft Punk finiscono impallinati da discorsi che hanno a che fare più con la ricezione del disco che con il suo contenuto.

D’altronde anche recensioni senza filtri rischiano di mancare il bersaglio. Ad opinione di chi scrive, ad esempio, lo sbrodolamento di Kevin EG Perry sul prestigioso NME, in prenda alla libidine da primi ascolti, di un disco indubbiamento fatto per piacere, non è il massimo esempio di critica musicale

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Al contrario le recensioni di Pitchfork come al solito, risultano più stimolanti nell’identificare il nocciolo della questione. Mark Richardson nella webzine americana è quello che affronta nel modo meno banale la principale novità e argomento di discussione di Random Access Memories, ovvero la reprise del sound anni 70 e 80, più calligraficamente disco, soft-rock e pop-prog del solito. Sorprendentemente la cosa non presta troppo il fianco ai detrattori (almeno non i critici) che anzi riscoprono in senso positivo termini come  “reazionario” , “conservativo” , “radicale” . Il dubbio, che rimane comunque sullo sfondo, lo riassume Gianluca Ciucci per Indie For Bunnies (4,5/5): se non fossero stati i Daft Punk l’accusa di passatismo sarebbe stata letale.

Richardson si concentra però più che sull’aspetto semplicemente estetico dell’operazione sulle sue intenzioni culturali, il recupero di uno “human touch” nella musica ben esemplificato della prima traccia dal titolo-manifesto “Give Back Life To Music”. Il fatto che il disco sia interamente suonato, che siano stati convocati di persona musicisti dell’epoca a cominciare da Nile Rodgers degli Chic e Giorgio Moroder,  rivela la costruzione voluta di un “album-album”, inteso come un artefatto estremamente costoso e prodotto con standard elevatissimi. Potrebbe, secondo Richardson, essere apparentato a dischi come Aja degli Steely Dan  e Dark Side Of The Moon (due citazioni che torneranno in maniera enigametica nell’analisi dei riferimenti) , come tester degli impianti hi-fi.

Da una parte quindi il ritorno al corpo umano come “moderni pinocchi”, dice Marino su SentireAscoltare, “RAM è un caleidoscopio di riferimenti, citazioni e calchi, un sottofondo di lusso nell’epoca dell’ascolto intelligente della Muzak, una dance analogica e orchestrale. È suonato, caldo, corposo, i Daft avevano voglia di suonare, di jammare (e di spendere soldoni nel farlo), e si sente”.

Dall’altro c’è questo aspetto della perfezione non più tecnologica ma ingegneristica del disco come prodotto.

E qui Richardson individua un sottile paradosso che, a suo parere, potrebbe aver messo in impasse i primi severi ascoltatori di RAM: se l’ambizione era fare un disco “più umano”, l’album rischia di suonare invece troppo perfetto, quasi sterile. Richardson dal canto suo elogia questa cura della superficie che contribuisce al fascino di RAM.

Non mancano le contraddizioni. Su The Quietus, Scott Wilson sostiene che RAM segna una linea sotto il mito-Daft Punk, proprio nella decisione di abbandonare il loro spazio-finzionale e rifugiarsi nella banalità di uno studio di registrazione.

Il discorso è cruciale e non a caso sul New York Times si scomoda proprio Mr Retromania Simon Reynolds, in un pezzo in cui, in definitiva, assolvere i Daft Punk per il loro voltarsi indietro. Arrivati ad un certo punto in cui sembrerebbe che l’esperienza sia di ascoltare musica che di produrre musica sia diventata troppo facile, conforme e “cheap”, i Daft Punk rispondono andando a ricercare le sfumature della musica suonata. In particolare Reynolds svela l’intenzione sottesa ma dichiarata dell’album: diventare esso stesso sample per altra musica, recuperare l’essenza, la materia prima della dance music di alto livello.

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Disney Side Of The Moon Safari?

Ma l’aspetto su cui si sono accaniti critici e opinion leader riguarda piuttosto la relativa e presunta nuova leggerezza del sound dei Daft Punk, la perdita di bpm rispetto al passato, l’abbondare di ballads e brani strumentali a discapito del ballereccio, il sospetto di un tocco vagamente lounge (anche esplicitato: le italiane IndieForBunnies, Ondarock, estere: Guardian, Telegraph, The Quietus). French Touch si ma meno hard a la Justice (per citare i nipotini caciaroni) e più Air. Tra gli aggettivi più usati infatti spiccano “cheesy” e “snappy”. In definitiva un album che sacrifica gli aspetti più “hard” del suono Daft Punk a favore di un sound più nostalgico e sentimentale.

Eppure, in parziale contrasto con questa essenza “light” e superficiale del disco, l’uso diffuso del termine “epic” e la descrizione di un album “barocco”, ci fanno intendere come i Daft Punk non abbiano rinunciato alla loro tipica grandeur. Se è verso costoro e le loro “piccole esagerazioni” che punta il dito Damir Ivic quando sospetta che qualcuno “Spaccerà la gradevolezza per genialità. La scorrevolezza per epica.”

per Resident Advisor, la sostanza epica di RAM si rivela solo dopo alcuni ascolti. Per molti (in Italia soprattutto, Ondarock e Luca Sofri su Wittgenstein.it) la caratteristica principale rimane il tocco barocco. Chi calca la mano su questi toni è Christian Zingales su Blow Up. Il barocco di RAM, per Zingales, è carico ma sbilanciato,  “ridicolaggine e senso tragico non viaggiano in un corpo solo ma vanno per cazzi loro” ma richiama un’ ”epica olimpica” nella loro concettualità “fatta di candore e malizia in parti uguali”.

Più di una recensione, lo stesso Zingales, Vice (caustico “un concept involontario sulla delusione”), ma anche Anthony Fantano (The Needle Drop), vede una sceneggiatura nel disco, un che da Rock Opera. Potremmo andare oltre dicendo riguardo la disneyizzazione del sound a cui fanno velatamente riferimento sia Il Mucchio, che insinua che i DP abbiano messo in piedi la loro “Disneyland anzi la loro Memoryland personale” sia lo stesso Zingales che mette in relazione alcune magniloquenze e sfarzo con l’impronta della casa di Topolino. Potremmo riassumere allora forse dicendo che più che di lounge, si tratta di un approccio formale legato alla nostalgia dell’infanzia in chiave sentimentale, una Disney Rock Opera.

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I brani che hanno ricevuto la reazione più veemente e generalmente positiva sono prima di tutti: Get Lucky e Giorgio by Moroder, uno “instant-hit” e l’altro “instant-anthem” per daftpunkinani e non. Se pure su “Giorgio” non c’è unanimità (vedi le critiche di Sputnikmusic e Vice) ad aprire più controversie è il brano con Pharrell. Il lancio come primo singolo di Get Lucky, secondo molti, ha creato aspettative di un certo tipo, per molti versi deluse. Un singolo forte, forse troppo forte. Secondo Resident Advisor e NME, Get Lucky è l’unico vero pezzo immediato del disco, il che ha fatto sicuramente vacillare i primi ascolti.

Secondo aspetto sottolineato da Ansaldo su Internazionale e da Zingales su Blow Up, Get Lucky nella versione su disco, ben più lunga rispetto al radio edit che ha spopolato, perde parte del suo appeal dirompente.

Infine, più d’uno, che sia il critico Damir Ivic su Il Mucchio o il debordante Demented Burrocacao su Vice, sottolinea sarcasticamente come sullo stesso identico giro armonico di Get Lucky il duo francese abbia costruito più di un brano di RAM, portato ad esempio della mancanza di idee.

Per il resto potremmo far riferimento alla ripartizione che fa Anthony Fantano di tre blocchi di canzoni. Quelle più chiaramente disco-funk o nostalgiche ma ripensate, secondo Fantano attraverso un “modern flare”, che comprende Get Lucky ma anche Lose Yourself To Dance (secondo alcuni virata debole del singolone), nonché Fragments Of Time, che a Fantano proprio non piace.

Quindi le ballads, da Whitin a Beyond, da Game Of Love a Doin’ It Right che, secondo Fantano nascondono le vere gemme dell’album, le “cose più vicine ai Daft Punk a venire”, ma che, su altri lidi (The Guardian ad esempio) sono le prime ad essere indicate come “insulse” o sospette filler (Sputnikmusic).

Infine il gruppo dei brani di più chiara ispirazione cinematica e dallo spiccato sviluppo strumentale, da Motherland, da molte recensioni additata come il brano peggiore dell’intero lotto, a Contact (considerata la reprise simbolica del Daft Punk-sound) e la già citata “Giorgio”, evoluzioni dell’esperienza per la soundtrack di Tron.

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Riferimenti

Citare i riferimenti per un disco dei Daft Punk è un’occasione troppo ghiotta per un recensore, eppure si registra una sostanziale uniformità di riscontri, tanto da far sospettare qualche spiacevole imbeccata da cartella stampa.

Ovviamente la fanno da padrone i marchi degli ospiti. Nile Rodgers rievoca ovviamente Chic e da quell’universo vengono spesso ripescati, Earth Wind & Fire e persino Hot Chocolate (Guido Biondi, XL). Moroder che linka  Donna Summer e Cerrone.

Spopola in tutte le salse il nome di Alan Parsons, in particolare quello di  Eye In The Sky, sia come influenza generale di RAM, sia nello specifico citato per il brano Instant Crush con Casablancas (brano spesso anche annoverato anche in quota Phoenix)

Curioso il caso di Steely Dan e l’album Dark Side Of The Moon. Già detto come i nomi condividano con RAM una certa cura del suono, gli Steely Dan vengono però citati spesso per Fragments Of Time, ma una minoranza più critica  vi accosta anche i Boston (Fantano) e i Toto (Zingales su Blow Up). Sul fronte soft-rock, vanno forte anche i Fleetwood Mac (Rockol, SentireAscoltare e XL) e gli Eagles (SentireAscoltare). La pietra miliare dei Pink Floyd invece viene tirata in mezzo, diremmo, un po’ a buffo a colpi di pretesti. Aspettiamo di avere chiarimenti da Marino di SA o da Zinagles di Blow Upin sul senso che abbia sostenere che RAM  sia il “loro Dark Side Of The Moon” e quale sia il parallelo tra le due uscite discografiche. Bah.

Fa capolino tra le influenze Sebastien Tellier (The Quietus e Ondarock) che evidentemente ha lasciato il segno da passate collaborazioni.

Tra le citazioni estemporanee ci hanno un po’ fatto storcere il naso gli Electric Light Orchestra tirati in ballo da Luca Sofri e i Queen come ispirazione del “canovaccio teatrale” secondo Guido Biondi su XL.

Ma nulla che possa insidiare la vittoria per il Riferimento Più Assurdo alla perla di Gianni Poglio che, su Panorama, non trova niente di meglio che descrivere Touch come una “impertinente cavalcata strumentale tra Ennio Morricone e gli Enigma”.