Reviewlution nasce per dare l’opportunità a tutti di farsi un’idea sulla critica che un disco ha ricevuto, senza affidarsi ad un’unica voce o spendere tempo e soldi in una ricognizione dispersiva. Lo facciamo noi per voi, ma, in cambio, ci concederete qualche sfottò ai nostri amici del giornalismo musicale senza stare troppo a farci sentire in colpa. Reviewlution è LA risposta alla domanda: “Beh ma insomma, questo disco, alla fine com’è?!”
Tra The Eraser e Amok, c’è stato The King Of Limbs, ovvero, il primo (mezzo) passo falso della discografia dei Radiohead, tra le cui accuse si annovera l’aver dato troppa briglia da parte della band alle elucubrazioni dancerecce del frontman. E se l’artwork di Stanley Donwood rievoca l’esordio solista di Yorke, nel primo video estratto, Ingenue, pare evidente che il regista Gareth Jennings faccia il verso all’iconico video di Lotus Flower che anticipava King Of Limbs. Questa germinazione discografica trova ampio e trasversale riscontro nelle recensioni che abbiamo scelto di approfondire, ma probabilmente anche nei grovigli mentali di Sir Thom. Amok segue più The Eraser o più Kings Of Limbs? E’ la versione “aperta” del solipsistico Thom Yorke o un’appendice cerebrale degli ultimi Radiohead? Su questa linea di interrogativi si dispiegano diversi posizionamenti.
Amok come seguito di The Eraser?
Le riviste italiane sembrano essere più canoniche, ritenendo essere The Eraser il termine di paragone. Ma se per John Vignola sul Mucchio (8,5/10) siamo lontani, ma non agli antipodi da quel lavoro, in una direzione però più “concreta”, per Franco Capacchione su Rolling Stone (2,5/5) è semplicemente un “The Eraser 2” con appena qualche sfumatura in più. E’ Stefano Solventi su Sentireascoltare (6,3/10), che invece, criticamente, rintraccia una retorica radioheadiana in “quel lirismo tra attonito e indolenzito è infatti … marchio di persistenza uman(istic)a”.
Molto chiaro è Josh Modell su The A.V. Club (9,1/10), una delle webzine più generose con il disco. Thom Yorke e la sua fascinazione per l’elettronica dai movimenti insistenti e sinuosi, sono il punto di contatto tra Amok e Kings of Limbs. A distinguerli però Modell riscontra quanto Amok suoni più vivo e partecipato rispetto all’ultimo dei Radiohead. Conclude anzi la recensione con la considerazione che, sebbene per un ascoltatore occasionale Amok appartiene allo stesso universo sonoro di The Eraser e degli ultimi due lavori dei Radiohead, invita coloro i quali fossero rimasti delusi soprattutto dalla piega di King Of Limbs a ricominciare da qui per seguire Thom Yorke.
Un altro entusiasta di Amok, Sam Richards su Uncut (9/10) , azzarda addirittura una provocazione: Amok è il disco che avrebbero dovuto fare i Radiohead al posto di King Of Limbs.
Amok è una conseguenza di the King Of Limbs?
Su questa linea di Amok come nemesi di King Of Limbs più che conseguenza del Thom Yorke solista, Andy Gill su The Indipendent (2/5) basa la recensione più impietosa tra quelle che abbiamo trovato. Amok è stilisticamente un’estensione dell’elettronica “pruriginosa” di King Of Limbs, similmente si ostina a nascondere le melodia in un ammasso di ritmiche iperattive, campioni compressi, rendendole semi-indecifrabili.
Interessante è il punto di vista di una webzine specializzata in IDM ed elettronica come Resident Advisor (3/5), dove, Jordan Rothlein riprende una dichiarazione di Thom Yorke ai tempi di The Eraser in cui definiva il proprio approccio “very insular”, riferendosi all’isolamento e alla produzione laptop-centrica. Amok, dice Rothlein, è tutto quello che non era The Eraser: spazioso, sontuoso, chiassoso, funky e quindi meno paranoico, chiuso su se stesso e, appunto, per nulla “insulare”. Rothlein si chiede se non erano invece queste le caratteristiche e l’unicità di Yorke, così come dei Radiohead, che lo hanno reso così speciale, mentre in Amok, esponendosi al confronto, sembra voler scomparire, nascondersi. Seguendo questa lettura psicanalitica è interessante quanto dice Stuart Berman su Pitchfork (6,9/10): The Eraser era il tentativo di Thom Yorke di portare a fondo il suo essere “insulare” e austero per dimenticarsi di essere il frontman di una delle band più analizzate del mondo: Amok, circondatosi di un cast all-star, è il tentativo di dimenticarsi di essere Thom Yorke. Berman non è pienamente convinto dal disco soprattutto rispetto al potenziale che, a tratti, sembra rivelare e, sostiene che è legittimo presumere che, come è stato per The Eraser, queste canzoni riveleranno la loro potenza soprattutto nella resa live, ma che, aggiunge, con i musicisti coinvolti e gli sprazzi intravisti, doverlo solo presumere è comunque deludente.
Il sospetto è che, secondo molti, l’impasse di Amok sia proprio nel coinvolgimento di musicisti importanti, negli Atoms For Peace come supergruppo.
Miles Davis, il jazz e la masturbazione in discoteca.
Se Av Club e Sputnikmusic (2,8/5), con giudizi diametralmente opposti, sostengono che la presenza di Thom Yorke prevarica e soffoca gli altri partecipanti, che eseguono le visioni groove di un guru (per AV Club il paradosso è che il vero supergruppo come incontro di individualità artistiche potrebbero essere i Radiohead), al contrario il nostro Marcello Aloe su Rocklab (7/10) evidenzia come “Thom in questa tornata abbia assunto un ruolo piuttosto defilato nel processo creativo […] che è stato di una sorta di collettiva, mistica session che si è protratta quasi ininterrottamente per pochi ma intensi giorni. […] Il risultato è la sintesi perfetta, l’esatta somma delle anime che compongono il gruppo”
Per Neil McCormick del Telegraph (3/5) e Alexis Petridis di The Guardian (3/5), più tiepidi, il problema sta proprio nell’impostazione e nel metodo “jazzistico” adottato Nigel Gondrich. In molti, a cominciare proprio da Marcello sulle nostre pagine (ma anche Mauro Molinaro su Storiadellamusica.it 7,5/10) hanno posto l’accento sul riferimento esplicito nel modus operandi al Miles Davis di In A Silent Way, prodotto da Teo Macero. Ne fa una perfetta ricostruzione Petridis per The Guardian: Gondrich e Yorke hanno sbobinato e ri-editato intere sessioni di jam di pochi giorni ritessendole con arrangiamenti elettronici (più suggestiva l’immagine di Stefano Solventi che richiama il teletrasporto cronenberghiano de Le Mosca). McCormick ritiene Amok affetto dallo stesso morbo dei dischi di jam session blues e jazz, ovvero di musicisti che suonano in modo eccessivamente introverso, dimenticandosi dell’ascoltatore e si concede di dire che si, ritmicamente si basa sulla dance music, ma non può considerarsi ballabile a meno che non si immagina una discoteca con gente che “si masturba spasmodicamente nello stile grezzo di Yorke.”
Petridis nota che spesso, a parte la voce di Yorke che rimane a fare da collante, seguendo i singoli strumenti, gradualmente, nel corso delle canzoni, vengono sostituiti dalla loro eleborazione elettronica. La sfumatura di dove finisce la band e inizia l’elettronica è al centro dell’idea musicale di Amok. Aggiunge Petridis che però sembra capovolgersi il senso tradizionale del supergruppo: non ha più il suo equilibrio in una dinamica di “duello di Ego” tra musicisti, ma piuttosto nel fatto che nessun membro è importante e centrale quanto il laptop. Il rischio, per Petridis, è che il procedimento finisca spesso per essere più importante dei contenuti.
Un disco di contenuto?
Parliamo di contenuti, dunque. Raccogliendo sprazzi di definizioni del sound di Amok si riesce a farsene un’idea complessa. Per Pitchfork la mancanza di progressioni e climax (che sottolinea anche Antony Fantano, light 7/10) ne fa una musica per “jogging sul posto”. The Indipendent lo accusa di essere eccessivamente omogeneo. Mentre John Vignola insiste sul concetto della sua “tridimensionalità”. Come caleidoscopio che gira su se stesso, per tutti vale forse la descrizione-incipit di Molinaro su Storiadellamusica: “Instabilità poliritmiche, istintuali e artificiali; collante la voce di Yorke nelle traiettorie frastagliate e stratificate, a sopraelevarsi nel caos elettronico e non di “Amok”. Uno strano gioco, anche folle e psicotico, di precaria sincronia e coordinazione; l’esordio degli Atoms for Peace è improvvisazione e decostruzione gestaltista in vesti 2.0; alchimia distorta di forme bizzarre. Comunque riconoscibili.”
Capacchione su Rolling Stone liquida il tutto con un “musica black sognata dai bianchi, immersa in suoni digitali. Non proprio una novità”. Molto duro anche Alberto Asquini su Ondarock (4,5/10) “sbadigli, moltissimi”, incentrando la sua stroncatura (“encefalogramma piatto”) sul fatto che si tratti di un lavoro stancamente e convenzionalmente pettinato e fighetto.
Curioso che ci siano almeno due recensioni che calcano la mano sulla matrice “radicalchic” del progetto, ma con giudizi tra loro opposti. Dan Martin di NME (4/5) parte dalla frase con cui Thom Yorke racconta l’input da cui è nato il disco “Eravamo a casa di Flea a Los Angeles, ci siamo fatti e abbiamo giocato a biliardo ascoltando Fela Kuti”, una cosa da vip radicalchic, dice Martin, ma giustificata da un disco eccezionalmente ben riuscito. Meno entusiasta è Alexis Petridis su The Guardian, riferendosi alla stessa frase, intesa come gente ricca e famosa che si sballa ascoltando musica etnica, nota come queste sono il genere di cose che hanno portato alla formazione dei Cockney Rejects come segno di protesta. Non manca di precisare come l’ispirazione al Miles Davis periodo fusion avrebbe fatto storcere il naso a Stink Turner leader della band. Sottolinea infine lo sdegno con un “come se il punk non fosse mai accaduto”.
Da qui al gioco dei riferimenti il passo è breve. Detto di Miles Davis e Fela Kuti, citati in quasi tutte le recensioni non mancano rimandi interessanti. Molto gettonati, sul lato electro, Burial (soprattutto riferito all’uso della vocalità) e Four Tet. Troviamo molto calzante Luca Valtorta su Venerdì di Repubblica che fa un parallelo tra Amok e Fear Of Music dei Talking Heads, paragonando il ruolo di Gondrich a quello di Brian Eno e soprattutto notando la somiglianza programmatica della prima traccia “Before Your Very Eyes..” con la celebre “I Zimbra”. E anche se John Vignola (Mucchio) ci sente “i Settanta tedeschi, i Joy Division e il Beck di Mutations”…
Il riferimento più assurdo…
la palma del “Riferimento più Assurdo” non sfugge a… Stefano Solventi su SentireAscoltare che evoca fantomatiche “reminescenze Bronski Beat”, ma per noi di Jimmy Sommerville neanche l’ombra.