Salvia Plath – The Bardo Story

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Se entrando in un negozio indipendente di musica, avessi sentito in airplay “The Bardo Story”, sarei andata sicura a cercarlo nella sezione ’60s e ’70s. Non trovandolo, con qualche dubbio sulle mie convinzioni musicali e sulla mia vista, sarei poi andata a chiedere aiuto al commesso, il quale mi avrebbe risposto con cortesia romanesca: “ ‘A bella, te credo che non c’è. E’ appena uscito!”. L’opera prima di Salvia Plath, al secolo Micheal Collins ( già leader dei Run DMT ed eclettico regista di Baltimora), è infatti uno di quegli album che va a rimpolpare la già nutrita e non originalissima schiera di produzioni neo-psichedeliche, a metà tra il vintage revival e la sperimentazione. Ed il nostro Mr. Plath non è da meno. Salvia infatti non è un novello dr. Frankenstein in quanto a nostalgici esperimenti di rinascita dei stupefacenti ’60s ( e non solo per le rivoluzioni storiche e dei costumi), sia in ambito musicale con i già citati e avviati Run DMT, che nello stile di vita. Stupefacenti compresi.

Ed è così che si presenta “The Bardo story”, come un caleidoscopio puntato sul presente, come un allucinato documentario on the road attraverso i meandri della coscienza alterata dell’autore, girato però in digitale. Un “The Bardo trip” a bordo, ovviamente, di un pulmino Volkswagen dai colori sgargianti stile flower-power, sprovvisto però di cartine geografiche (ma farcito di quelle tanto care a Marija). Per perdersi meglio. Lo smarrimento come via per la conoscenza, in pieno stile psichedelico (dal greco “psichè”, mente, più “delos”, mettere in chiaro). La velocità di marcia non è certo alta, il tachimetro segna spesso bassi regimi, lenti come la monotonica e pastorale “Interlude”, dilatati al massimo come le chitarre e le tastiere immaginifiche delle strumentali “Intro” e “Carly’s theme”. Un elogio della lentezza. La storia ci insegna che un elemento tipico della musica ’60s in technicolor è il coro. Salvia quindi non si lascia sfuggire l’occasione di riproporceli in tutte le salse, specie nelle tracce in cui l’urgenza di una doppia dose di droghe (e di pressione sull’acceleratore, anche se di poco) si fa più sostenuta. L’armonizzazione delle voci in “House of leaves” e “Hidden track” è impeccabile e a tratti sfiora la “psicodelizia” dei The Mamas and the Papas e dei Beatles di “Across the universe”. Volendo azzardare, la scelta per un ipotetico singolo potrebbe ricadere su “Salvia Plath”, manifesto surf pop dell’album e della personalità dell’autore, in cui la voce in overdrive sembra passata attraverso una lente multifocale (allusione questa alla multipolarità del Nostro). Tentativo due: la scelta potrebbe ricadere su“This American life”, talmente ariosa da scompigliare i capelli come una qualsiasi canzone dei Beach Boys ascoltata con il finestrino abbassato. “The Bardo story” ha quindi il suono ovattato di una sbronza da tequila a go go, la potenza allucinatoria di un’insolazione causata dall’eccesso di ore sotto al sole in preda all’autostop e ai deliri per il pulmino in panne (e con tutte quelle droghe non è che si diventi Schumacher, eh). Ascoltare “Stranded” e “The Bardo state” per credere/immaginare.

Certamente niente di nuovo, alla fine. Mr. Plath ricalca la scia neo-multicromatica già visionata illo tempore da gruppi come i Fleet Foxes o Tame Impala. Non sarà il disco del nirvana, ma un posto nella playlist da viaggio riesce comunque a guadagnarselo. Sempre che la macchina non vi lasci a piedi durante l’ascolto.

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