Andrew Wyatt – Descender

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La mandria di gente che ha sculettato impudentemente su Grenade di Bruno Mars forse non saprà mai che dietro la furberia di quella canzone si nasconde lui, l’unico con una barba credibile tra quegli svedesoni dei Miike Snow: Andrew Wyatt. In un misero mese, unico intervallo di tempo disponibile tra il tour con la band e i vari impegni da superproduttore, Wyatt è riuscito a mettere insieme il suo primo disco da “solista”. Per modo di dire: alla registrazione hanno infatti collaborato Rossomando dei Libertines, Truax degli Interpol, Herndon dei Tortoise e, siccome erano in pochi, anche 75 elementi dell’Orchestra Sinfonica di Praga. Il risultato è un disco di pop elegante, tra Rufus Wainwright e The Divine Comedy, ma meno precisetto, più surreale e soffuso.

L’obiettivo di Wyatt era di creare un album più “obliquo” nelle melodie, non incentrato sullo hook come gli capita di fare con i Miike Snow. Voleva che suonasse come qualcosa da ascoltare nell’intimità delle mura domestiche, e si può dire che ci sia riuscito: se siete soliti sorseggiare Bourbon avvolti in una vestaglia di velluto, potete completare il quadro mettendo su “Descender”. Non fatevi spaventare dall’attacco alla Ryuichi Sakamoto di Horse Latitude, dal momento che arriveranno subito Harlem Boyzz e Cluster Subs con il loro carico di spensieratezza ad alleggerire l’atmosfera. Potrebbe in effetti essere l’album della “presa a bene” se non fosse per She’s changed e In Paris they know to build a monument, i pezzi più cupi ma non per questo trascurabili. And Septimus…, il primo singolo estratto, è una ballata micidiale ai limiti dell’ipnotico, che se non fosse per la virata perturbante verso il finale non sfigurerebbe come standard da matrimonio.

È qui che si coglie l’importanza dell’orchestra in “Descender” (nonché la scaltrezza di averla inclusa, cosa che è comunque degna di merito): per quanto possa risultare impegnativo ai fini della resa live (Wyatt, finora, ne ha effettivamente fatto solo uno), da che mondo è mondo rimpolpare una canzone con archi e fiati la fa sembrare una lasagna anche se in realtà è un panino col prosciutto. Se comunque si considera che il nostro si è trovato a dover scrivere di proprio pugno gli spartiti, incontrando non poche difficoltà in fase di registrazione, non si può evitare di stringergli idealmente la mano. Le facce dei musicisti praghesi nel documentario girato da Mlynarski durante le prove dicono il resto.

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