Quello che si è da poco concluso è stato, senza dubbio, l’anno dei Blue Willa. Iniziato con un posto d’onore sulla copertina del Mucchio Selvaggio; continuato, poco dopo, con l’uscita dell’omonimo album, realizzato con la collaborazione dell’eclettica Carla Bozulich – nome di punta della scena alternative statunitense, che ha riscosso grandissimo consenso e apprezzamento da parte di critica e ascoltatori; e dipanatosi in una serie di ricchissimi tour, che hanno visto la band calpestare decine di palchi, sia italiani che esteri, compreso quello del prestigioso Primavera Sound a Barcellona.
Il nuovo disco ha rappresentato, per il giovane gruppo toscano, non soltanto la messa in opera di una metamorfosi anagrafica (li avevamo conosciuti come Baby Blue, e già allora li avevamo amati), bensì una vera e propria esplosione ontologica: uno straripamento di forze primordiali e ipnotiche sonorità subacquee, ritmi nevrotici – a volte sgangherati, altre volte inquieti e ammalianti, melodie torbide e corpose, rumorismo punk ed echi blueseggianti; fremiti ancestrali che si rincorrono e si annientano, incalzanti, in un perpetuo spannung emotivo.
Questo e molto altro sono i Blue Willa. Un’entità ibrida in continua evoluzione, un’integrazione instabile di richiami dissonanti e sfumature screziate.
Li abbiamo incontrati per fare due chiacchiere a metà dicembre, in occasione del loro concerto nella suggestiva location della Sala Vanni di Firenze: un’esibizione intensa, dove i quattro, accompagnati al violoncello da Alessia Castellano, hanno reinterpretato alcuni brani di Kurt Weill – vibrazioni magnetiche e suadenti tanghi rock, affiancandoli a pezzi del proprio repertorio. La ciliegina sulla torta di un 2013 sbalorditivo.
E’ passato un anno dall’uscita di “Blue Willa”, che ha rappresentato il vostro esordio discografico nella nuova veste omonima al disco. E’ stato sicuramente un anno ricco e intenso; dovendo tirare le somme su questo 2013, come vi sentite in questo momento? Come collochereste questo disco all’interno del vostro percorso musicale?
Serena Altavilla: Sicuramente è un disco rilevante, direi miliare per noi. Le soddisfazioni sono state enormi, tante e diverse.
Vi sentite in qualche modo cresciuti, maturati?
SA: Sì sì, con queste cose per forza!
Mirko Maddaleno: Con questo disco abbiamo ricevuto molte più attenzioni di quanto non succedesse prima. E’ bella come cosa, perché è stato il disco più difficile che abbiamo fatto; è bello riuscire a fare ottenere una visibilità a un progetto del genere.
Passiamo al cambio di nome. Ripensandoci adesso, col senno di poi, cosa pensate abbia rappresentato per voi? Uno sviluppo della vostra identità musicale, o piuttosto una sorta di rinascita?
SA: Mah, direi uno sviluppo…
MM: Uno sviluppo-rinascita!
SA: Quando ci si sviluppa poi si rinasce!
MM: Si rinasce sempre, tutti i giorni.
Siete noti come un gruppo dai tratti fortemente tendenti all’estero, e siete stati anche definiti una band “d’esportazione”. Quanto vi riconoscete in questa definizione? E’ qualcosa a cui in qualche modo puntavate, o siete rimasti stupiti?
SA: Di sicuro, anche inconsciamente, non puntavamo a suonare solo in Italia. Suonare in più posti del mondo possibili, sì, era dentro di noi come volontà.
MM: E’ una volontà che c’è sempre stata. In realtà ci siamo messi a farlo veramente, adesso; la grossa differenza rispetto a prima è che ci siamo detti: “ok, a questo giro lo dobbiamo fare”.
SA: Anche perché prima ti sembra parecchio lontano e difficile; non c’è un motivo, è proprio una sensazione.
Riguardo invece alla scena musicale italiana, pensate che forse ci sia ancora un legame eccessivo al contesto territoriale, e quindi una difficoltà ad avvicinarsi alla scena estera? C’è un attaccamento troppo forte alla scena nazionale, e perciò poco l’aspirazione ad avvicinarsi a un linguaggio che sia riconosciuto anche all’estero?
Lorenzo Maffucci: Dipende; ci sono alcuni gruppi e musicisti italiani che per programma fanno una cosa che è sensata quasi esclusivamente in Italia, in cui c’è un messaggio più autoriale, come ad esempio per i cantautori. In quei casi probabilmente è anche difficile che la motivazione per uscire dal territorio sia sostanziata da una ragione vera. Altri, invece, apparentemente lo fanno: portano avanti un discorso che non è esclusivamente territoriale, ma che lo diventa solo perché per scelta o per necessità sono costretti a restare fermi, o più fermi di quello che potrebbero. Però questo tipo di progetti è proprio quello che dovrebbe invece fare il passo per uscire; dovrebbero loro e dovrebbe il sistema intorno a loro consentire questa cosa, anche se ovviamente non è immediato.
MM: Bisogna essere pronti a farsi davvero il culo, questo bisogna saperlo; ma ripaga tutto. Non è come suonare in Italia, è il doppio più faticoso ed hai molte meno agevolazioni. Bisogna decidere se uno se la sente di farlo o no. Però è molto bello, ne vale la pena di brutto!
Avete suonato in molte città europee. Avete riscontrato qualche differenza nell’approccio alla musica live all’estero rispetto all’Italia?
MM: Tendenzialmente c’è più silenzio.
SA: Più silenzio, sì, ma anche più gente che viene sotto il palco, più partecipazione. Poi magari è stato un caso, è difficile dirlo.
MM: Poi noi si parla dell’Italia e dell’estero, ma in realtà in ogni posto è diverso!
Avete notato delle differenze anche nell’accoglienza del pubblico di fronte alla vostra proposta, che può sicuramente essere considerata originale e inconsueta, e quindi spesso, purtroppo, non essere apprezzata a pieno?
SA: All’estero sinceramente è venuta fuori questa cosa di essere “originali”, o comunque diversi, però è stata veramente ben accolta, in maniera parecchio positiva.
MM: Ad esempio, per prenderne una, durante la recente esperienza in Francia abbiamo visto che la gente era molto attenta, ascoltava molto attentamente quello che facevamo; e dopo, quando spiegavano perché gli era piaciuto, facevano delle osservazioni veramente molto acute, che ci hanno fatto piacere e ci hanno fatto capire che avevano ascoltato davvero attentamente anche i feedback fra un pezzo e l’altro. Questo succede di rado in Italia, però ovviamente dipende, magari in un altro posto in Francia sarebbe andata in modo diverso!
LM: Secondo me una cosa che è importante che sia osservata è questa: a volte uno si trova a suonare in un posto e si chiede “perché sto facendo questa cosa, qua, in questo luogo?”; altre volte invece è chiaro il perché. Il motivo per cui è chiaro è che per fortuna – e questa è una cosa che esiste ovunque, che può esistere ovunque, perciò non ha senso chiedersi se è in Francia o in Germania o in Italia – in ognuno di questi posti, se ci sono le condizioni adatte, si verifica un qualcosa che ti porta a compimento del viaggio che ti sei fatto per arrivare fin lì. Se questa cosa è mossa e orientata a una base di persone vere, funziona; se per qualche motivo, a qualunque livello, è artificiale, non funziona. In Italia purtroppo è molto più probabile che sia artificiale.
Quindi sostanzialmente pensate sia anche un discorso di educazione all’ascolto?
LM: Non necessariamente, secondo me. Non è un fatto di educazione, non serve alcun tipo di nozione per capire questa roba. E’ più una cosa legata all’accoglienza e all’umanità, alla sensibilità. Non è una cosa tecnica.
MM: Magari è anche legata a una serie di coincidenze. Però è bella la ricerca: ok, ti è andata male, la volta dopo ci riprovi e vedi come va; lo sai solamente quando stai suonando. E’ bella la sorpresa di arrivare in un posto e dirti: “Ma qui, forse, sarà molto difficile”, e invece poi è uno dei concerti più belli che fai, o viceversa.
In questo periodo si sta parlando molto di protesta (la protesta dei Forconi, ndr). Pensate che l’arte e la cultura possano essere una forma di resistenza e di protesta efficace anche più di quella a cui stiamo assistendo ora?
LM: Più efficace non lo so, ma che sia uno strumento sì… Anzi sì, più efficace! Sicuramente più di quello che sta succedendo ora!
MM: Ha degli effetti che non si vedono nell’immediato, non sono misurabili e non sai quali siano, ma le potenzialità sono molto maggiori di questa roba qua che sta avvenendo ora. Anche perché l’arte può influire davvero sul modo di vedere il mondo delle persone, è questo il punto, non soltanto su un dato problema del momento.
LM: E’ che quest’indicazione la dai a poche persone per volta, per questo sembra poco efficace. In realtà, purtroppo e per fortuna, è sempre una nicchia. Bisogna lavorare su una scala più piccola.
SA: Quando una persona ti viene a dire che sta bene, ti ringrazia per un concerto, nel nostro caso per un concerto, poi ognuno ha le sue arti… Più di così cosa puoi aver fatto?!
MM: Cambiare la giornata di una persona può essere una cosa molto più potente di quello che si pensa. Poi quella persona incontrerà delle altre persone, e magari a sua volta cambierà la loro giornata. E’ così che si cambiano le cose, non con i problemi specifici.
Con il nuovo progetto sembra che abbiate cercato di bypassare l’appartenenza a un particolare genere musicale; nonostante si sentano influenze di vario tipo, dal blues al noise-rock, la sensazione è che vi siate soprattutto cimentati nella contaminazione fra i vari generi e in una sperimentazione molto audace. Dico bene?
SA: Per formarsi una personalità e un carattere ci vogliono dei passaggi, necessariamente; noi forse abbiamo trovato questa strada, sì.
MM: Poi il percorso è sempre il liberarsi da certe cose. Non vai incontro, non dici: “Il prossimo voglio andare verso il metal”; dici: “Devo liberarmi dalle catene che vedo ci sono nel disco precedente, e che certe volte mi facevano andare col pilota automatico”. E’ un liberarsi, via via, dalle zavorre.
Nei vostri pezzi si sente spesso una grande immediatezza istintiva, come a voler dare voce a una pulsione totalmente spontanea e inconscia. Quanto c’è di irrazionale e, volendo, primordiale nella vostra musica?
SA: Tantissimo, tantissimo. Tutto!
MM: Ti devi liberare di quelle cose là, perché impediscono la fuoriuscita di quest’altra roba. Più te ne liberi, più fuoriesce. L’obiettivo è essere del tutto così, poi non sappiamo se ci siamo arrivati o se ci arriveremo.
Quindi secondo voi la musica può essere anche terapeutica, proprio per sbloccare questi moti inconsci, per dare voce a qualcosa di interiore?
MM: Certo! Ma anche per chi la musica la fa… Ma proprio di brutto, te l’assicuro! E’ una roba parecchio potente.
Quali sono le influenze artistiche e le figure predominanti nella vostra formazione? Di quali atmosfere risentite, sia personalmente che come gruppo?
LM: Personalmente, le uniche persone, o quasi, che in questo momento mi dicono qualcosa che ancora non so sono tutte quelle che hanno meno di 20 anni. Perché sono persone vive e non morte. Purtroppo noi siamo tutti morti.
MM: E’ difficile indicare delle cose specifiche. Quando mi innamoro di qualcosa, ad esempio un gruppo, è qualcosa che mi sconvolge quasi l’intera visione delle cose. Non è perché c’è questo o quest’altro; tutte le volte che trovo qualcosa che è completamente fuori da qualsiasi canone, e che ti arriva direttamente in pancia, è lì il discorso. Però sono milioni!
SA: E’ davvero dura rispondere, ci sono troppe cose! Adesso mi sto ascoltando le bande dei Misteri di Trapani, però chissà! Poi la techno, poi dopo boh… Troppe cose, dipende da ciò di cui ho bisogno.
LM: Poi via via, scremando… Ad esempio, stasera facciamo alcune cose specifiche su cui ci siamo misurati apposta per quest’occasione, in questo caso Kurt Weill direttamente, e quindi magari è da lì che peschiamo. Ma non succede spesso.
Le foto dell’articolo sono di Eleonora Cagnani.