Lana Del Rey – Ultraviolence

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La sensazione destabilizzante di trovarsi d’accordo con un articolo de Il Giornale (che potete leggere, a vostro rischio e pericolo, qui) in cui la qui presente Elizabeth Woolridge Grant (aka Lana del Rey) viene definita “gattamorta nichilista”, fa venir voglia di approfondire la questione, di mettere per un attimo da parte il discorso “si va be’ ma questa è finta, c’ha il padre ammanicato etc” e guardare il fenomeno del Rey senza disgusti preconcetti.

Tanto per cominciare, tutti coloro che salgono su un palco sono costruiti e quindi, in un certo senso, finti; solo che alcuni si costruiscono meglio di altri, senza sputtanarsi ogni 3 secondi. Se Lana gattamortasse nichilisticamente con stile, non ci sarebbe niente da eccepire; purtroppo per lei (ma soprattutto per noi) non è così, e quindi ci ritroviamo con una tizia che fa videoclip per H&M convinta di non perdere il suo fascino dannato, e un suo secondo disco smiagolante peggio del primo, in cui ogni pezzo sembra la demo version dei primi successi: ‘Summertime sadness’ è oggettivamente un pezzo interessante, ma perché rovinarne il ricordo riproponendone la brutta copia in ‘Brooklyn baby’?

Dio solo sa quanto possa piacere un’artista che si crogiola negli schifi del mondo mostrandosi a suo agio, magari anche ammantandosi di scintillii pop che accentuino il contrasto con la violenza, la droga, la morte e compagnia affascinante (poiché spesso sconosciuta). Ma nei brani più espliciti di questo Ultraviolence (per l’appunto, la title track e ‘Sad Girl‘) si avverte un senso di parodia che alleggerisce il tutto, come in una di quelle fiction Rai finte-audaci che ti propinano la morale di soppiatto. Poi sicuramente rimane più impressionante sentir parlare di gioventù bruciata e sofferenza piuttosto che di rose e fiori e notti in discoteca, e quindi a Lana de Rey va dato perlomeno il merito di sfrugugliare il tabù della morte che, ahinoi, rimane ancora pesantemente radicato oggi ancor più di ieri dal momento che quello del sesso è bell’e spiattellato ovunque. La recente polemica che l’ha coinvolta in uno scambio di tweet infuocati (attenzione…) con Frances Bean Cobain a proposito della ‘glamourizzazione della morte’ non avrebbe ragione di esistere in una società in pace con se stessa. Che poi Lana continui a ripetere che preferirebbe essere morta, che la morte è arte, che con la sua musica vorrebbe distruggere la vita delle persone e altre amenità fa solo ridere. Ma, davvero? Dalla regina del sadcore laureata in metafisica mi aspetterei qualcosa di più (o di meno).

Infine, la produzione lasciata in mano a Dan Auerbach (Black Keys) ha evidentemente tolto quel poco di movimento che c’era in Born to Die, appiattendo il tutto in una sequela di sussurri lo-fi che si potrebbero ottenere anche ascoltando un disco di Paris Hilton nel corridoio di un ospedale.

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