Riverock Festival 2014 [Castelnuovo di Assisi, 28-29-30 agosto 2014]

Sono stati tre giorni importanti per Perugia e la sua provincia, quelli di Riverock, piccolo virtuso e tenace festival nato ormai cinque anni fa dalla spinta di un gruppo di giovani appassionati di musica, i ragazzi dell’omonima associazione. Le tre serate svoltesi a Castelnuovo di Assisi sono state importanti per tanti motivi: il primo sicuramente è quello relativo alla capacità di creare quasi dal nulla un evento giovane che è cresciuto anno dopo anno, attirando su di sé attenzione sempre maggiore di addetti ai lavori e stampa e portando proposte musicali indipendenti di varia estrazione e tipologia in un contesto gratuito. Cosa che, in un periodo così depressivo per la nostra provincia (gli spazi per la musica e per i festival si sono sempre più assottigliati, basti pensare alla chiusura di locali storici come il Loop o all’estinzione di fatto del festival più importante come Rockin’Umbria) non può che far bene, soprattutto come spinta propulsiva all’azione e alla voglia di far vivere comunque e nonostante tutto la musica, specie quella indipendente. Altro valore aggiunto del Riverock è la sua vocazione all’apertura e la capacità di fare rete, di includere anziché escludere, tanti  soggetti: così, oltre ai gruppi che si sono alternati sul palco, tanti sono stati gli eventi “collaterali”: dai diversi dj set che hanno visto alterrnarsi alla consolle personaggi clou per la musica umbra, alla collaborazione con Radiophonica attraverso il live-drawning di Becoming X – From Rock to Electro, passando per altri piccoli happening e contest, fino ad arrivare al fruttuoso connubio dell’ultima sera con Woodworm, l’etichetta aretina che da qualche anno ormai si sta imponendo all’attenzione del circuito indipendente italiano vantando fra i propri artisti sia gruppi emergenti fra i migliori degli ultimi anni (come i Fast Animals & Slow Kids, per dirne uno) sia giganti come Umberto Maria Giardini (il fu Moltheni) e Paolo Benvegnù, che ha scelto proprio quest’occasione per presentare una piccola anteprima di “Earth Hotel”, il suo nuovo disco in uscita il 17 ottobre prossimo. Infine, ma non è certo il motivo meno importante,  quello di avere creato uno spazio per un certo tipo di pubblico in cui sentirsi semplicemente a casa: la sensazione è stata per tutti i tre giorni quella di un posto dove prendersi una birra, incontrare tanti amici, magari anche cenare, e poter ascoltare un po’ di buona musica in santa pace. Senza resse, senza ansie, senza troppi protagonismi o divismi, poteva capitare di chiacchierare con gli stessi artisti seduti in mezzo al pubblico a mangiare un hamburger o spillare birra dietro il bancone. Il tutto condito dall’estrema gentilezza e disponibilità di tutto lo staff del Riverock, ragazzi magari anche giovani e non troppo espertima forse anche per questo accoglienti verso un pubblico di cui fondamentalmente sono parte loro stessi, più che veri e propri addetti ai lavori.

sin cos

La prima serata sicuramente è stata la più coraggiosa, sia per il giorno (giovedì) che per le scelte pescate fra  proposte meno conosciute e più tendenti a sonorità elettroniche. Fra i gruppi locali nota di merito per i My Dirty Face, con la grinta sensuale di Sara Belia a trascinare la band in ritmi notturni ma ruvidi. Come prevedibile né i Sin/Cos né gli Omosumo sono riusciti ad attirare un numero ragguardevole di pubblico, ma si sono esibiti comunque con entusiasmo e dedizione. I primi sono un duo bolognese nato dalle ceneri – se così si può dire – dei My Awesome Mixtape, con la mente del progetto Maolo Torreggiani accompagnato da un pezzo degli Altre di B, Vittorio Marchetti: live  ha faticato un po’ a coinvolgerci, fors’anche perchè non era facile creare una performance convincente in questo contesto, soprattutto data la natura della band, staticamente incollata al palco da tutti i marchingegni tecnici a cui è ancorata. Stesso discorso vale anche per gli Omosumo, terzetto tutto siciliano di cui fanno parte un componente dei  Waines (Roberto Cammarata) e due dei Dimartino, ovvero Angelo Sicurella e Antonio Di Martino che abbandona la veste di cantautore per imbracciare il basso e dar man forte ai compagni. Rispetto ai Sin/Cos dal vivo si apprezzano maggiormente per una più fruibile forma-canzone, pur contaminata dall’attitudine elettronica sporcata di chitarrismo rockeggiante, e  per una resa migliore sul palco: abbiamo percepito tutta la passione e la forza che scaturisce dalla mente del gruppo, Sicurella, che ci mette tutta l’anima nella voce –  diventa quasi stridula in alcuni frangenti fino a fondersi con la musica –  e nella corporeità dell’esibizione. Alla fine sono riusciti a farci scuotere e muoverci seguendo i loro ritmi.

omosumo

Molto diversa la situazione della seconda serata, venerdì, dove tutti ci aspettavamo il pienone che effettivamente c’è stato: il nome principale, dopo la buona esibizione dei ternani Majakovich, d’altronde, non lasciava molti dubbi al riguardo. Gli Zen Circus ormai sono una macchina da guerra: dove vanno riescono sempre ad attirare l’attenzione di un buon numero di spettatori. Performance un po’ sotto la loro media, però, quella al Riverock – lo dice una che li ha visti già altre due volte in questo tour –  e le spiegazioni possono essere tante e magari non aderenti alla realtà dei fatti. Probabilmente un po’ di stanca dovuta ad un tour che ha macinato date su date e chilometri su chilometri ha reso Appino e compagni meno coinvolgenti del solito, o forse meno “coinvolti” del solito: abbiamo avuto l’impressione che il trio toscano accusasse la routine da palco, e che non sia riuscito a dare il meglio in quel di Castelnuovo. Saranno state le transenne che hanno tenuto lontano il pubblico con cui di solito s’instaura un tutt’uno magmatico? Di sicuro gli Zen Circus live sono divenuti – loro malgrado? – un vero e proprio fenomeno festaiolo  che faticheremmo ormai a vedere esibirsi davanti a un pubblico meno caldo e sparuto: la musica sta diventando sempre più un contorno a un delirio di pogo e canzoni cantate a squarciagola, un pretesto per fare festa, come ha confermato l’episodio dei due fans deliranti lasciati salire sul palco. Cosa che ha i suoi lati positivi ma finisce per sminuire a tratti quanto di bello il trio toscano rappresenta anche per la musica in sé. Loro lo sanno (“Gente di Merda” l’hanno scritta loro, d’altronde), ci scherzano e gettano sarcasmo anche sul pubblico adorante, finendo per apparire un po’ paraculi un po’ stronzi. Ma alla fine dei giochi, la scaletta sembra costruita per far divertire più che per essere ascoltata: i soliti bellissimi cavalli di battaglia (“Figlio di Puttana”, “Andate Tutti Affanculo”, “Canzone di Natale” e la lista potrebbe continuare a lungo) inframezzati da poche canzoni del reportorio più datato e da alcune dell’ultimo disco. “Viva” , “Postumia” e “Canzone contro la Natura” hanno ormai fatto breccia nei c(u)ori dei loro ultras, mentre quando parte una delle canzoni più interessanti dell’ultimo disco (“Dalì”) l’atmosfera si fa più fredda, a conferma che il loro pubblico a volte non riesce a star dietro alla parte meno festosa della loro produzione. Viene da chiosare con “l’importante è che il pubblico ci sia” soprattutto di questi tempi,  gli Zen in fondo se lo meritano e non andiamo troppo per il sottile. Chissà se un giorno – data tutta questa popolarità – lo spiazzeranno con delle scalette meno prevedibili?

Zen Circus

Pubblico che non è mancato nemmeno per la terza serata del festival, forse la più attesa: quella dedicata ad un nuovo episodio del Woodworm Festival (già svoltosi a marzo in tre tappe e location diverse, una dietro l’altra). Questa volta l’attenzione era tutta catalizzata dal ritorno on stage di Paolo Benvegnù, con l’anteprima assoluta di alcuni nuovi brani contenuti nel prossimo disco “Earth Hotel”, in uscita il 17 ottobre proprio per l’etichetta aretina. Prima di lui però ad alternarsi sul palco altri nomi più o meno noti del parco artisti Woodworm, a cominciare dagli spoletini Progetto Panico che giocavano in casa e che hanno come sempre sprigionato energia e carica esplosive, come d’altronde è la natura stessa della loro musica. Subito dopo di loro il progetto intellettual-punk dei Wu Ming Contingent, band sui generis in cui si sposano critica sociale e hardcore da battaglia entrambi dalle tinte un po’ retro, un po’ nineties: roba però che funziona leggermente meglio su disco proprio per l’importanza (che piacciano o meno) che rivestono i testi. D’altronde nei loro intenti c’è quello di fare un passo avanti rispetto al formato “reading di testi accompagnato da musica” e forse live c’è qualcosa da aggiustare ancora, in certi contesti. Sicuramente molto interessanti, e vi consigliamo di andarvi ad ascoltare il loro esordio “Bioscop” ,un insieme di “brevi biografie maschili usate in maniera pretestuosa per parlare d’altro”. Dopo di loro la garanzia Julie’s Haircut che ci hanno letteralmente incantato con le sonorità sofisticate e limate del loro bellissimo “Ashram Equinox”: hanno preparato perfettamente il terreno e l’atmosfera all’attesissimo ritorno di Paolo Benvegnù.

Paolo Benvegnù

Prima di vederlo su quel palco ho avuto il privilegio di incontrarlo per una video-intervista per Radiophonica (la web radio dell’università di Perugia che era anche mediaparner dell’evento), in cui è emersa tutta l’infinita umiltà e umanità dell’uomo e dell’artista.  Earth Hotel parlerà dell’uomo in maniera un po’ più distillata – secondo le sue parole – dell’uomo gettato nelle cose ”terrene” proseguendo il discorso dell’ultimo Hermann, secondo capitolo di una trilogia (che lui chiama “dell’h”) che prevede quindi un terzo episodio. La scelta di presentarlo in un piccolo festival come il Riverock è precisamente connessa al suo rapporto con la provincia dove si svolge “la vita di questo paese” perchè nelle grandi città “mancan gli orizzonti” e al suo rifuggire in un certo qual modo le platee più grandi (“non mi ci vedo a fare intrattenimento, è la festa dell’uva” ci dice riguardo a Sanremo – al quale ci confessa però di aver provato a partecipare) anche perchè se da un lato è vero che “si è assottigliato il confine fra indipendente e mainstream, è vero anche però che si è allargata la forbice tra chi fa musica di poesia – parafrasando Pasolini che parlava di cinema di poesia – e chi fa intrattenimento, e purtroppo tanta gente ci sta in mezzo e sta con tutti e due i piedi in tutte e due le scarpe e questo un po’ mi fa ridere”.

Benvegnù invece continua per la sua strada, con la sua “musica di poesia” sostenuto dall’entusiasmo di chi in  quella provincia ci prova un po’ a smarcarsi e a farli vivere, quei “lunghi orizzonti” di cui parlava: Woodworm e la gente che la anima sono stati fondamentali per i progetti  dell’ex Scisma, che si rivede nel Gaber del periodo Luporini e nel fatto che nella sua vita reale smentisse le stigmatizzazioni precise delle sue canzoni, che fosse un po’ “tesi e antitesi nella medesima persona”.

Sul palco, non ha deluso le aspettative dei tanti curiosi che volevano sentire i nuovi pezzi, tre soltanto (così d’altronde era stato annunciato già prima) inanellati uno dietro l’altro dopo solo due canzoni (“Il Pianeta Perfetto” e “La Schiena”): non riusciamo ancora a sbilanciarci da un solo ascolto live, ma le sonorità continuano nel solco del pop-rock di Hermann per colorarsi anche di altre derive, ma c’è ancora da aspettare per poterne parlare davvero con cognizione di causa. Concerto proseguito nell’estasi generale del pubblico con alcuni dei pezzi più belli della sua produzione, da “Love is Talking” alla toccante “Anime Avanzate”, dall’immancabile e delicata “Cerchi nell’Acqua” ad uno dei brani simbolo dell’ultimo disco “Andromeda Maria” eseguito in totale solitudine sul palco, in un’atmosfera magica e commovente, che pochi altri riescono a creare. La sua voce nasconde tutta la sua umanità, e nella solitudine di un piccolo  uomo sul palco viene fuori in tutta la sua eleganza e potenza misteriosa. La musica deve tornare ad essere un’arte – povera, popolare, quel che volete – e Paolo Benvegnù in un piccolo paesino sperduto della provincia umbra è riuscito a ricreare quell’incantesimo.