Interstellar di Christopher Nolan

Interstellar

Per andare avanti bisogna lasciarsi qualcosa alle spalle

L’assunto del pilota Cooper, stringatura for dummies della terza legge di Newton, è il principio più appropriato e al tempo stesso più fuorviante per accostarsi all’evoluzione del cinema di Christopher Nolan. Man mano che il suo macrotesto va arricchendosi di nuovi tasselli oversize, l’autore-ingénieur conferma un calibratissimo (per alcuni eccessivo) meccanismo tensivo tra il radicale sperimentalismo visivo, spinto costantemente verso un’originale e personalissima riscrittura di generi e figure dell’immaginario, e il fedele ancoraggio a un serbatoio di stilemi basici rimodulati ogni volta con significati divergenti. Il modo migliore per intercettare il funzionamento dei suoi dispositivi filmici continua ad essere la macchina del teletrasporto del Nikola Tesla versione steampunk di The Prestige (2006): il congegno narrativo, come un cappello a cilindro, si mantiene in apparenza immobile sotto i nostri occhi, concluso, delimitato e padroneggiabile, mentre in realtà si trova traslato, spostato a ripetizione, dislocato in un altrove insospettabile – spaziale, temporale e di racconto – di cui solo successivamente scopriamo l’esistenza, nonostante la prima immagine del film lo mostri esplicitamente, indicando la soluzione senza che ancora la si possa afferrare (il cumulo di cilindri in The Prestige, il naufrago Cobb e la trottola di Inception, 2010, il modellino della navicella sullo scaffale della libreria per Interstellar).

Il testo filmico che appare fermo – eppur si muove -, trasferendosi modificato in un’altra dimensione. Preso in quest’ottica, Interstellar si configura come innesto testuale ricorsivo di alcune marche stilistiche di Inception nel campo aperto, sconfinato e a gravità zero della fantascienza spaziale: le dinamiche sogno/sonno-veglia, realtà-proiezioni immaginarie, la struttura a più livelli e la centralità della presenza fantasmatica. Nuova incursione dentro forme imperscrutabili come superamento delle leggi regolatrici dell’universo-cinema e della sua (a)temporalità (ir)reversibile. Scavalcamenti di campi gravitazionali come sfida alla rappresentazione di una dimensione insondabile (la quinta?), latente ma non percepibile senza l’occhio (nudo) del cinema. Anche a livello tematico, le due opere delineano la stessa tensione tra il fine collettivo – l’impresa da portare a termine per il bene comune – e la risoluzione di un conflitto privato. Il senso ultimo della missione dei protagonisti (l’estrattore Dom Cobb e l’astronauta Cooper) dentro una dimensione altra (lo Spazio come il Sogno) è il ricongiungimento con i propri figli nel reale, il complicato ritorno a casa. Ristabilire un contatto per superare la barriera-soglia di una visione “schermata”, quella della normale percezione del reale che offusca la relatività illeggibile del mondo come la comunicazione relazionale. In Inception, i bambini di Cobb, nei suoi meandri onirici, stanno a distanza, dando le spalle al padre, impedendogli di scorgerli in volto, proiezioni simbolo di un’unione impossibile nella realtà. In modo simile, Cooper, nel labirinto di stanze, osserva la figlia Murph senza poterla avvicinare.

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Interstellar sembra replicare un’isotopia del binomio Sogno-Veglia di Inception mutuata nel parallelismo Spazio-Terra (Sogno=Spazio come Veglia=Terra). Nello spiegare la congiunzione simultanea, favorita dal wormhole (il ponte spazio-temporale), di due punti situati a distanza abissale, l’ufficiale Romilly disegna uno schizzo concettualmente simile a quello che Cobb abbozzava per spiegare all’architetto Arianna l’immediatezza istintuale e inafferrabile del sogno. Ponti di Einstein-Rosen come scale di Penrose. La soglia della dimensione onirica spalancata come il varco schiuso dal wormhole. Così come in sogno “creiamo e percepiamo il nostro mondo nello stesso momento”, fusione inattuabile da svegli, anche le fratture gravitazionali di Interstellar annullano scarti vertiginosi saldando le traiettorie di ogni mondo possibile, impensabili in orbita terrestre, in una temporalità circolare che rincorre se stessa all’infinito. Tuttavia, la comparazione Spazio-Terra come Sogno-Veglia si dimostra presto un inganno tanto suggestivo quanto infondato. Un’equazione che non torna come quella del professor Brand. I termini in questioni sono giusti, ma vanno incrociati diversamente (Spazio=Veglia e Terra=Sogno), in un rapporto che informa di sottilissimi quanto precisi ribaltamenti di significati.

Il primo e più esplicito riguarda il diverso grado d’azione della relatività nello scorrere in parallelo della frizioni temporali. Se in Inception il sogno è (pro)motore di rallentamento (un’ora di sogno equivalente a cinque minuti di tempo reale), in Interstellar la presunta dimensione Spazio-Sogno funziona come inarrestabile acceleratore (qualche ora sul pianeta ondoso brucia decine di anni terrestri). Con in entrambi i casi la presenza di uno spaziotempo assoluto come minaccia azzerante ogni coordinata (il limbo infinito in Inception, il buco nero gravitazionale in Interstellar). A un ulteriore livello poi, se la narrazione non fa che accumulare frangenti in cui sono gli astronauti ad addormentarsi e/o destarsi dal sonno criogenico, parcellizzando la canonica successione del tempo («mi sono fatto qualche sonno»), Nolan qualifica piuttosto la popolazione terrestre come quella inconsciamente intrappolata in un sonno della ratio scientifica, vittima di un arbitrario sogno finzionale. Un impasse studiata a tavolino e un pionierismo rinnegato che paralizzano il tempo e dunque il senso e la direzione della Storia. È l’effetto del revisionismo didattico con cui l’allunaggio è ufficialmente demolito agli occhi delle nuove generazioni come grande finzione ricostruita in studio (geniale cortocircuito cinematografico con cui Nolan eleva provocatoriamente a sistema i complottisti fuori dal coro che vedono in Kubrick l’occulto regista della missione Apoll0 11).

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Altro fondamentale indizio dello stato d’incoscienza sopita dell’umanità viene dallo scenario di completo smantellamento/dismissione di ogni esercito o reparto speciale (dai marines alla Nasa). Una metaforica “caduta delle difese” e dei sistemi di (sor)veglia(nza) cosciente, naturale preludio ad ogni avventura dell’inconscio, ancor più significativa e stridente se messa a confronto con gli inconsci altamente militarizzati, ai sogni come avamposti armati di resistenza e palestre di addestramento guerresco visualizzati massicciamente in Inception. È dunque la Terra lo spazio del sogno da cui occorre fuggire, fugando la cappa opprimente (simboleggiata dalle vorticose tempeste di sabbia) di teorie preconcette e ottusi limiti autoimposti. Il nodo risolutivo si dà, come in Inception, nel trattamento riservato alla presenza fantasmatica, figura ambiguamente centrale in entrambi i film, ma tratteggiata con esiti opposti. L’insidiosa Mal di Inception, inalienabile eccedenza di rimosso manipolatore che intrappola nell’illusione di un passato dilatato all’infinito, è simbolo della tentazione dell’illusione perenne in uno spaziotempo tutto mentale, impermeabile allo scorrere della realtà. Un fantasma-proiezione che in Interstellar sfonda il muro della psiche del singolo per transustanziarsi a livello globale nella forma di un capillare oscurantismo dominante, affossando un progresso che procede a mani legate e impedendo l’uscita dal sonno. Come tale, un fantasma da rinnegare e cancellare. Di converso, c’è qui un fantasma-persona che va riconosciuto e accolto come forza razionale decisiva nel contrarre il tempo verso un futuro oggettivamente possibile, non frutto di universi proiettivi. Da un fantasma-guardiano dei sogni sepolti nella mente dell’individuo (Inception) a un fantasma-esploratore dello spaziotempo che risvegli l’inconscio collettivo (Interstellar) dal cuore di tenebra umano e dal morire della luce della scienza (il riferimento alla poesia di Dylan Thomas).

È un passaggio decisivo compiuto da Nolan dall’ambiguità indecidibile del sogno/realtà (il finale irrisolto di Inception con la trottola in movimento) ad una concreta realtà umanista, intima e domestica per quanto tecnologicamente futuribile (la stazione orbitante e l’insediamento sul nuovo pianeta). Ancora una volta, uno spostamento inaspettato. Un transito realizzato visivamente, con le architetture oniriche di Inception (simmetrie impossibili, labirinti di stanze a specchio, scale escheriane, ambienti a 360° ripiegati su se stessi) trasferite e installate in una gravità fisicamente esistente. Anche scegliendo di lasciarsi la Terra alle spalle, il regista non può che trascinarsi dietro le forme e gli inconfondibili campi di forza del suo universo cinematografico.