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18 Novembre 2014 | dischord | fugazi |
Era un giorno di Primavera. Mi trovavo in un bar di San Lorenzo, a pochi passi da Piazza dell’Immacolata. Avevo un appuntamento. La persona che aspettavo alla fine mi avrebbe dato buca. Nel frattempo attaccai bottone con un tizio più grande di me, seduto al tavolo affianco. Uno di quelli con cui attacchi bottone facilmente. A dire la verità mi intromisi nella conversazione fra lui e il barista. Naturalmente parlavano di musica. Da lì in poi ci fu uno scambio serrato di battute, impressioni e giudizi che rasentò l’estenuante. Due ore più tardi non so più a quale birra fossimo arrivati. Di certo sarà stato contento il barista. Insomma, venne fuori che, malgrado i dieci anni e più di differenza, se entrambi amavamo suonare era in gran parte per merito dei Fugazi. Come disse una volta il mio ex-professore di Semiotica, rispondendo all’obiezione postagli da un laureando sui 40, in completo da Brigate Rosse: “È bello capirsi a vicenda”. Fatto sta che a un certo punto il tizio mi cantilenò: “Non lo sai? Joe Lally vive a Roma adesso.” No. Non lo sapevo. E col passare del tempo, interrogando sia amici che estranei, scoprii che ero praticamente l’unico stronzo a non saperlo. Come se non bastasse, l’ormai ex-bassista dei Fugazi aveva anche composto un brano che s’intitola “Via Nomentana”. Lì dove ancora bazzica il prof di Semiotica.
Questa è solo una delle strane coincidenze legate ai miei amori musicali, alla mia vita, e alla città in cui sono nato e cresciuto. Un’altra riguarderebbe Morrissey. Ma ne parleremo altrove. Non scorderò mai la prima volta che misi su le cuffie per ascoltare un disco dei Fugazi. Quel suono di chitarra che andava e veniva, ad intermittenza. L’insinuarsi improvviso di basso e batteria, serpeggianti. Come una minaccia sotterranea. L’irruzione delle chitarre. Guy Picciotto che declama il memorabile verso iniziale. Qualcuno avrà già intuito che si tratta di “Turnover”, la traccia d’apertura di “Repeater”. Disco riguardo il quale ogni commento è superfluo. La suddetta canzone non è presente all’interno di questa raccolta, didascalicamente intitolata “First Demo”, e comprendente brani risalenti al primo periodo della band, quello che va dai primi due ep, ovvero “Fugazi” e “Margin Walker”, successivamente accorpati in “13 Songs”, fino all’esordio vero e proprio. Ripetiamolo ancora. One.Two.Three. Repeater! Oltre a questo c’è qualche piccola chicca, come l’inedito “Turn off your guns”, o “The Word” e “In defence of humans”, che di sicuro sono delle rarità all’interno del loro repertorio, ma erano già uscite su altre raccolte. Tre pezzi che non stonano affatto accanto ai classici della band, risultando comunque non eccelsi.
Veniamo al dunque: che rilevanza può avere un album composto dalle prime demo dei Fugazi rispetto alla loro intera discografia? Fondamentalmente nessuna. Puro materiale per nostalgici e per completisti. Ci avevano lasciati agli albori del terzo millennio con l’ombroso, e magnificamente irrisolto, “The Argument”, insieme all’ep “Furniture”, da cui “First Demo” riprende la title-track, con un triplo salto carpiato che vede una canzone del 1988, già ripescata nel 2001, ripubblicata nella sua versione originaria a 26 anni di distanza. E quindi adesso?
Il punto è che, nel contesto di una carriera esemplare, ammirata da nicchie di appassionati sparse in tutto il mondo, e caratterizzata da un’integrità artistica che non ha rivali, quest’ultima uscita non sposta di un centimetro la nostra visuale sul proscenio Fugaziano. Anche se la voce di Ian Mckaye che si rivolge alla band a inizio o a fine canzone restituisce una simpatica atmosfera da sala prove, non è niente che non ci saremmo aspettati. E le pur evidenti differenze d’esecuzione che riscontriamo nelle prime versioni di pezzi storici come “Waiting Room” o “Merchandise” non alterano la sostanza del discorso. Ebbene, utilizziamo un’espressione che, se rivolta a chi ha illuminato il cammino del post-hardcore, arrivando addirittura a rifiutare una proposta di contratto da parte della Sony, quando il grunge era già esploso, può apparire blasfema. Ma tocca farlo. Perché qui non siamo dalle parti dello splendido “End Hits”. Semmai siamo dalle parti del “Greatest Hits”. Con questo non voglio mettere in dubbio l’eroismo auto-produttivo di Ian MacKaye e della sua Dischord Records. Non sia mai.
Il Rock dei Fugazi rimane comunque un oggetto strano e spigoloso, che rielabora le influenze più disparate in una miscela dal sapore aspro, che ha nel punk il portavoce della propria nervosi, e nella sezione ritmica il proprio inconfutabile protagonista.
Direte voi, dopo Captain Beefheart, Pere Ubu, e Pop Group, quale novità avrà mai apportato il gruppo di Washington D.C alle sorti travagliate della musica rock? Io mi sento di dire che è proprio nella riscoperta della canzone che sta il nocciolo di tutta la questione Fugaziana. Dilatando, e contaminando il verbo hardcore, la band ha saputo giocare con le dinamiche, ora asettiche, ora deflagranti, del suo gesto, della sua performance, al tempo stesso spogliando, e pervertendo col rumore, gli stereotipi armonici della canzone classica, però, e qui sta la differenza con i gruppi suddetti, mantenendone pressoché inalterata la struttura ideale. Quasi sempre c’è un’introduzione. Segue un tema incisivo, e ricorrente, affidato al basso elettrico, piuttosto che alla linea melodica di una chitarra o di una tastiera, come di norma fanno altri, ed in primo piano, sorretto dalla batteria di Brendan Canty, spesso agitata da istinti tribali, c’è la voce. O meglio, un grido hardcore che al momento giusto si avvicina di qualche grado in più alla melodia. Ritmo e canto. Gli elementi basilari di una canzone primitiva, che emerge attraverso un fitto incastro di segmenti noise, rock, hardcore e post-punk, innalzandosi a bandiera di una condizione alienata, che senza mascherare i propri stati di alterazione riesce a tracciare le fila di un discorso tutto sommato coerente, che pare muoversi su tre livelli: A Gli psicodrammi di Guy Picciotto B Le invettive sociali di MacKaye C Un senso del mondo che sa di beffarda condanna. Insomma, il dentro, il fuori, e tutto ciò che è intorno. Al centro, nuovamente, e rovinosamente, l’uomo.
Tutto questo, assieme ad un pizzico in più di goliardia, è ancora una volta testimoniato, e non potrebbe essere altrimenti, da “First Demo”, che però ha il brutto difetto, che per altri sarà un pregio, di non dirci niente che già non sapessimo. Non c’è nulla di cui meravigliarsi se “i giovani Fugazi” fossero già così potenti ed incisivi nella fase d’abbozzo. Ricordiamo che sia Ian MacKaye che Guy Picciotto provenivano da altri gruppi in cui avevano avuto modo di allenare il proprio genio. Il primo con “Minor Threat” ed “Embrace”. Il secondo con “One last wish”, “Rites of spring” ed “Happy go licky”. Tanto per citare i più importanti. Va da sé che al cospetto di tutto ciò quest’ultimo disco sa un po’ di regalo riciclato. Ma dal Natale di quasi trent’anni prima. Inutile gridare al capolavoro. Inutile dare il massimo dei voti. Neanche fosse un premio alla carriera. Non ce n’è bisogno. E ve lo dice uno che otto anni fa, in pieno furore liceale, organizzava bislacche lezioni sulla storia dei Fugazi nel periodo di autogestione. Uno che con la propria band, alla prima prova, si è messo a suonare “Waiting Room”. Uno che col suo migliore amico di un tempo ha trascorso ore ed ore a guardare “Instrument”, il documentario sui Fugazi, in versione originale senza sottotitoli, capendo poco o niente di quello che dicevano. Uno che per anni ha tentato inutilmente di farli apprezzare alla sua ragazza. Scusami ancora Ilaria. Un eterno ragazzo dell’88, che solo per il fatto di essere nato nello stesso anno in cui sono nate queste canzoni, ascoltando la mezza fregatura che è “First Demo” , si sente come se fosse già il suo compleanno. Insomma, uno che ci tiene ai Fugazi.
[schema type=”review” name=”Fugazi – First Demo” author=”Marco Tucciarone” user_review=”2″ min_review=”1″ max_review=”5″ ]