The Pains of Being Pure at Heart – Days of Abandon

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Soli nella vostra camera. Quella stessa camera che un tempo era il vostro rifugio, e che ora, alle soglie dei trenta, somiglia più a una prigione. Stesi sul letto, supini, guardate il giorno spegnersi, nello schermo della finestra. Lo sguardo s’appiccica al soffitto, come un insetto entrato da fuori, venuto dal tramonto. Uno strano e stupido insetto, di cui ignorate il nome. Ma non è la prima volta che compare. Per voi ormai è “L’Insetto dei Ricordi”. Ridicolo vero? Si fa vedere soprattutto in Autunno ed Inverno, e va matto per le stanze dei bambocci un po’ alienati, e affetti da malinconia.

Gli occhi, con ali d’insetto, iniziano a posarsi su episodi del passato, come oggetti custoditi gelosamente: quella volta in cui eravate vestiti da punk, in qualche serata revival, col vostro amico di sempre, o meglio, con quello che un tempo era il vostro amico di sempre, cantando quella canzone dei “The Exploding Hearts“. Oppure quella volta che eravate in ospedale, o su un marciapiede deserto alle tre del mattino, insieme alla persona più speciale con cui abbiate mai condiviso la vostra guerra. Oppure, ancora, quella volta che eravate in biblioteca, fra libri e polverose microforme, e avete avuto la netta sensazione che l’età più bella stesse ammuffendo. Sensazione confermata dagli psicofarmaci che la vostra amica ingurgitava a più riprese. C’è bisogno che continui? Siete riusciti ad immedesimarvi? Allora sono due i casi, anzi tre: o avete ascoltato i dischi dei “The Pains of Being Pure at Heart“, oppure è come se li aveste vissuti. O magari entrambe le cose. E i vostri nomi sono “Belong”, “The Contender”, “Young adult friction”. Piacere di (ri)conoscervi.

Ne è passata di acqua sotto i ponti dall’esordio della band di Kip Berman. Un gruppo di universitari di stanza a New York, non certo assi della tecnica, ma con idee molto chiare riguardo la scrittura dei brani, ad essere onesti, quasi tutta farina del sacco di Kip. I ragazzi, all’epoca poco meno che trentenni, riuscirono, senza chissà quali sfracelli, ad attirare l’attenzione del mondo sulle loro canzoni. E questo senza inventarsi niente, ma proprio niente, nemmeno per sbaglio. Forti di una sensibilità capace di andare oltre i singoli generi, e riuscendo a cogliere la malinconia di fondo che accomuna, in diversi frangenti, certe pagine musicali del passato, i romanticoni sono riusciti a creare il proprio stile. Senza inventare, come dicevo, ma elaborando una sorta d’alchimia, in grado di fondere l’afflato poetico di Morrissey, gli umori un po’ meno oscuri di Robert Smith, il jingle-jangle, gli Smashing Pumpkins versione college rock (vedi alla voce “Mayonaise”), certe fragilità vocali, eppur dolcissime, votate al rumore elettrico come insegna la Scuola Shoegaze ( E qui la lista sarebbe lunga: dai primissimi Ecstasy of Saint Theresa, fino ai Pastel Blue, passando per Slowdive, My Bloody Valentine, ed altri nomi non meno pertinenti). Ma soprattutto, come già è stato scritto altrove, più e più volte, rimane la forte impronta dei gruppi legati all’etichetta Sarah Records, come gli Even As We Speak, tanto per citarne uno. Un’impronta che si sente principalmente nel disco d’esordio, ma che è ancora ravvisabile nella semplicità di molti arrangiamenti, e nel modo di cantare leggermente svociato, leggermente stonato, leggermente trasognato. Leggermente, ecco.

Days of Abandon” è il loro terzo full-lenght. Anche se “loro”, visti i recenti trascorsi, è un po’ una parola grossa. Il fatto è questo: l’intera band, ad eccezione del nostro Kip, se n’è andata. Senza litigi, stando a quanto si evince dalle varie interviste riguardo l’argomento. Ma in sostanza, il motivo del commiato è riassumibile pressappoco così: “Amico, è stato divertente, ce la siamo spassata, ma adesso è il momento di crescere“. Sono cose che non si fanno. Nossignore. Roba da sbatterli al muro. Ed io, sebbene ignaro delle reali circostanze che hanno portato all’abbandono, sto dalla parte di Kip. Del resto, anche questi sono “I Drammi dell’Esser Puri di Cuore”. Anzi, ti dirò, forse è meglio così. Tanto Peggy Wang, per carità adorabile, era stonata come una campana.

Alla luce di questo, a mio avviso, il titolo assume un significato assai più profondo, e assai più personale, oltre ai vari, ed eventuali, che gli si possono attribuire. “I Giorni dell’Abbandono“, già, come quel romanzo di Elena Ferrante, già, come quel film che ci riporta ai “Tempi Buy” del cinema italiano. Proprio quello. Il titolo dell’album è infatti ispirato al suddetto romanzo, nella traduzione inglese “Days of Abandonment“. Nel caso di specie, all’amputazione sillabica corrisponde una maggior vaghezza semantica. Giorni d’abbandono. Giorni strani, ambivalenti, in cui si viene lasciati, e in cui ci si lascia andare. Ai ricordi. Alla malinconia. Forse alla felicità.

Art Smock” si segnala da subito come uno dei brani più riusciti. Un timido accompagnamento di chitarra introduce una linea canora altrettanto timida, in un crescendo a fil di voce che pian piano sibila fino al refrain, o presunto tale, in cui il malinconico Kip si unisce alla new entry Jessica Weiss, in incantevole armonia. Chitarre e tastiere di contorno non disturbano più di tanto questa dolce ninna nanna per cuori infranti. Direttamente dal testo:

“I should have guessed it was going to fall
to pieces in my hands again
I’m broken where i stand again
I never learn this lesson right
but i want you here”

Da qui in poi, citando la seconda traccia, nonché primo singolo estratto, l’album scorre, va avanti, procede “Simple & Sure“. È vero, a volte i testi presentano alcune bizzarrie, che rasentano il microcosmo in latex della sfera “S & M”. Versi come “How low we should bow to lick the boots of a sacred cow“, da “Simple & Sure“, sono quasi grotteschi, e il neologismo “Masokissed“, che dà il titolo a un brano, suggerisce un ulteriore doppio fondo, in quello che potrebbe apparire come un normale cassetto contenente ricordi e lettere d’amore mai spedite. A ben vedere, l’amore narrato da Kip Berman è tutto fuorché una cantilena pseudo-stilnovista. È un amore fatto di carne, di ossa, di solitudini, di ansie, di treni affollati, di film spazzatura, di droghe, di amicizie indissolubili, e di speranze sul punto di svanire, come al risveglio da un sogno. È un amore che palpita, che strozza la voce in gola, che quasi leva le forze. Un amore puro in un mondo dominato dal caos, e dal tempo che sfugge inafferrabile. L’universo poetico di Kip Berman affonda l’inchiostro in drammi molto terreni, senza rinunciare a slanci verso l’assoluto, o a quadri simbolisti (“The Asp in my Chest”). E pensare che orde di persone stanno andando in fregola per quel surrogato pop del bel canto detto “Il Volo“, e per il loro “Grande Amore“, che somiglia ad una rumorosa scorreggia al termine di un’abbuffata di pizza scadente.

Le parole di Kip mettono a nudo l’infinito desiderio in un’età finita, la nostra, spesso con disarmante semplicità, come accade in “Beautiful you“:

“Tell me that we’re still so young,
but you’re wrong, so wrong
I felt forever in a day,
and then i let it slip away”

L’immaginario dell’autore non è poi così distante dal cinema di Gregg Araki, in cui giovani sperduti vagano nel nulla della grande città alla ricerca di qualcuno che li ami. Non è un caso se i Pains figurano fra gli acquisti del regista nel programma “What’s in my bag?“, visibile su Youtube. Non è un caso se sono presenti nella colonna sonora di “Kaboom“.

Il sound dell’album, rispetto al precedente “Belong“, che vedeva niente di meno che Flood ed Alan Moulder in cabina di regia, si è spogliato delle sovrastrutture più rock, o perlomeno di certo rock anni ’90, sviluppando così un’atmosfera generalmente più pacata, ma non meno intensa, dando maggior risalto alle corde dell’anima, rispetto ai pedali della distorsione. Non mancano episodi più frizzanti, come nel caso di “Until the Sun Explodes“, piccola scheggia impazzita che in appena due minuti frulla insieme Lush, Catherine Wheel, e The Cure (le linee canore delle strofe, così come il giro d’accordi, sono un dichiarato omaggio a “Just like Heaven“). Si dimostra azzeccata la scelta di affidare alla nuova arrivata Jessica Weiss, già all’attivo coi Fear of Men, la voce principale in “Kelly“, i cui intrecci di basso e chitarra rievocano la stupenda “This Charming Man” della ditta Morrissey & Marr, e in “Life After Life“.
Proprio questo brano, assieme a “Eurydice“, sembra quasi uscito dalla tracklist di “Reflektor” degli Arcade Fire. Giusto un appunto. Una piccola curiosità.

Ad ogni modo, il largo impiego di citazioni non rende questo disco un banale copia e incolla di idee altrui, poiché il cuore pulsante dell’opera è tutto nella personalità di Berman, che, malgrado resti sempre in bilico fra lo spiffero ed il miagolio, risulta sempre convincente nell’atto di raccontare le proprie storie, che siano allegre, oppure dolenti. Del resto, non ci si può dannare più di tanto, se a distanza di trent’anni gruppi come i The Smiths continuano a sopravvivere nell’opera di artisti più giovani, in maniera quasi automatica. Con le dovute proporzioni, è quella che Darwin definiva “Selezione Naturale”. In conclusione, il classico terzo album, il classico disco della maturità, che fa da spartiacque per il futuro della band, ora che al timone di comando è rimasto il solo Kip.

Soli nella vostra camera, aprite la finestra. E l’insetto dei ricordi vola via. Ma sapete che presto tornerà. Restate a fissare il tramonto. E l’Isis non esiste più. L’Europa non esiste più, comprese le sfumature di grigio. L’unico bondage concesso, ora, è la bobina che avvolge il vostro cuore, eterno proiettore di ricordi. Eterno, già. A volte sembra così.
[schema type=”review” name=”The Pains of Being Pure at Heart – Days of Abandon” author=”Marco Tucciarone” user_review=”4″ min_review=”1″ max_review=”5″ ]