Fear Of Men – Loom

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Appurato che le università nel Regno Unito servono principalmente ad agglomerare band, i Fear of Men si presentano come uno sponsor di rara emblematicità di quest’andazzo: partiti come due studentelli qualsiasi di Arte e Letteratura emigrati da Brighton a Londra, Jessica Weiss (voce e chitarra) e Daniel Falvey (chitarra) iniziano a collaborare sul fronte accademico per poi scoprirsi affini sul fronte musicale. Purtroppo, la scontatezza di quest’accenno biografico si riflette in gran parte della loro musica: malgrado l’aggiunta di Michael Miles alla batteria (di cui non è pervenuto il livello d’istruzione, quindi si spera che almeno lui sia diplomato all’ITIS, così, per creare suspense), la loro musica rimane derivativa a livelli quasi fastidiosi. Se non fosse per il modo in cui viene prodotta.

Gli accostamenti a The Smiths, Cranberries, gruppi storici della 4AD e figliolanze varie si sprecano: il contrasto tra melodie indie-pop e liriche disperate, l’estetica sacrale e a tratti macabra, quel cantato e quelle chitarre fluttuanti non si staccano dalla tradizione neanche in Loom, disco d’esordio della band, preceduto solo da una raccolta di singoli (Early Fragments, 2013). Quello che sorprende, però, è il modo in cui tutto questo viene realizzato: i Fear of Men rivendicano con orgoglio il loro approccio DIY che, sebbene in alcuni momenti mostri il suo lato approssimativo, rimane una caratteristica di tutto rispetto. Il trio ha lavorato per un anno a questo disco, inabissandosi in uno studio sotterraneo per sganciarsi dagli impegni quotidiani: quest’esperienza a metà tra il ritorno al grembo materno e una discesa agli inferi è perfettamente allineata con il clima di inquieto compiacimento del disco. Il titolo stesso (loom vuol dire telaio, ma anche sembianza) porta a cercare tutte le trame e gli accorgimenti che rendono i Fear of Men moderatamente degni di nota nonostante l’uniformità al canone: con una costanza da concept album, in ogni brano sono presenti riferimenti all’aspetto ambivalente dell’acqua, elemento salvifico o distruttivo a seconda dei casi; e, dalle parole sussurrate come in un dialogo notturno da Weiss, emerge la centralità data alle relazioni umane più intime e tormentate, nobilitate da accostamenti colti che spaziano da Shakespeare a Donne. Disporre di mezzi limitati ha portato il gruppo ad ingegnarsi durante la registrazione: l’asciuttezza armonica di alcune battute di chitarra è stata ottenuta spegnendo gli amplificatori, mentre un tocco decadente è dato dal retroscena distorto di parti orchestrali sintetizzate in modo piuttosto convincente. Ma la parte più irriverente la gioca la batteria che, stando alle parole della band, si riferisce all’R’n’B e suona precisa come una drum machine, in contrasto con gli echi sospesi degli altri strumenti.

I pezzi migliori di Loom, ‘Vitrine’ e ‘Luna’ (di cui è stata realizzata una versione francese che fa subito raffinatezza), consolidano questo quasi-esordio dei Fear of Men, rispondendo al bisogno di pop introverso che ogni tanto riaffiora tra l’esibizionismo dilagante.