È di pochi giorni fa la notizia che Gino Paoli presidente della SIAE ha aderito alla protesta degli indipendenti contro YouTube, l’azienda posseduta da Google che sta minacciando di cancellare dalla sua piattaforma gli artisti e la case discografiche indipendenti che non aderiscono al suo progetto di streaming “a costo zero”. Sempre della stessa ora la notizia che il Ministro dei Beni e della Attività Culturali Franceschini ha firmato il Decreto sull’equo compenso, che andrebbe a togliere quote alla telefonia portandoli agli autori, editori, produttori dei contenuti, per una cifra che si aggira intorno ai tre-quattrocento milioni di euro.
Ma che cosa sta succedendo? Lo abbiamo chiesto a Giordano Sangiorgi, presidente AudioCoop e patron del MEI, il Meeting delle etichette Indipendenti – e proprio di questi temi si parlerà ampiamente al MEI di Faenza dei 20 Anni dal 26 al 28 settembre.
Sembra che si stia muovendo qualcosa…
Con la firma di questo decreto, se i soldi verranno usati virtuosamente, si sta parlando di 400 milioni di euro in più che passano dai più noti marchi multinazionali dei telefonini, nelle tasche di autori, editori e produttori italiani, il che significa più soldi per il settore Musica, Cinema e Letteratura.
Il sistema dell’ascolto in streaming si sta radicando in maniera preponderante nelle abitudini dei fruitori di musica. Per com’è inteso oggi, favorisce o danneggia i nuovi artisti e le case discografiche che si occupano di promuovere e pubblicare nuova musica? Perché e in che modo.
I dati sono esattamente questi. C’è un aumento esponenziale dell’ascolto in streaming e un calo del downloading. Stiamo già assistendo a un’ennesima rivoluzione del digitale, passata dall’Mp3 al modello Myspace, ormai parte del vintage della musica online, fino al downloading di iTunes, che deteneva fino a poco tempo fa il 90% del mercato del downloading, oggi tallonato – e si immagina presto superato – dall’ascolto in streaming, attraverso i nuovi modelli di Spotify e Deezer, i due marchi più noti, ai quali si sta associando YouTube.
Questo fenomeno sta modificando radicalmente il modello di ascolto: ci sono dati che dicono che gli album vengono ascoltati per intero da circa il solo 20-30% degli ascoltatori, mentre il restante 70-80% ascolta solo due o tre brani per album. In sostanza si tratta di un boom dei singoli. Il paragone è quello col boom del mangiadischi negli anni ’60 che accompagnò l’esplosione dei complessi alternativi beat: l’avvento del mangiadischi, molto meno costoso del giradischi, rese accessibile il consumo di musica anche alle tasche di un adolescente, così come diventava accessibile alle tasche di un complesso beat la produzione di un 45 giri. Oggi con lo streaming l’ascolto di un singolo di una band indipendente è molto più accessibile, a scapito però delle risorse economiche, perché gli accordi economici con i soggetti che gestiscono questi servizi sono cifre infinitesimali che non permettono di avere quei ritorni economici che sarebbero utili per poter reinvestire nel settore.
Il problema quindi riguarderebbe l’equità delle cifre che le aziende di streaming sono disposte a pagare per ogni clic ai detentori dei diritti (ovvero case discografiche e artisti) che oggi sono troppo basse. Come si è creata questa situazione?
Noi stiamo vivendo, grossomodo dall’epoca di Facebook, nell’era della FINTA rete libera e del VANTAGGIO DELLA VISIBILITÀ. Su questi due capisaldi fasulli si stanno costruendo dei monopoli, parlo di Google-YouTube che non ha praticamente concorrenti, parlo di iTunes, parlo di Amazon, parlo di Facebook che non ha un concorrente, parlo di Twitter… si stanno costruendo dei monopoli giganti mondiali che fanno business attraverso le informazioni, i profili e i contenuti che gli “operai della cultura creativa” (nella loro catena di montaggio virtuale fatta da tanti pc) forniscono sostanzialmente in maniera gratuita a questi soggetti… in cambio di cosa? Di poter rompere le barriere dell’informazione e di arrivare direttamente ai consumatori. Questo è stato inizialmente il grande vantaggio di Internet, un po’ come è avvenuto negli anni ’70 per le radio libere. Stiamo insomma assistendo allo stesso tipo di modello: boom delle radio libere, grande possibilità di accesso per molti a gruppi e cantautori che non passavano nelle radio ufficiali. Ma una volta che si è raggiunta una massa critica di ascoltatori, nel nostro caso un grande numero di utenti della rete che vanno ad accedere a questi contenuti, privatizzazione di questi contenuti. All’epoca fu l’ingresso nel settore di radio e tv commerciali, oggi la presenza di multinazionali che monopolizzano il mercato e ne determineranno poi contrattualistiche e “presenze”. Un esempio è proprio quello che sta accadendo con YouTube, che dopo aver annientato le TV musicali vuole entrare nel mercato dello streaming per fare concorrenza a Spotify e Deezer, proponendosi di diventare un canale mainstream-major, perché è con queste ha preso accordi, e forte di questi accordi propone agli indipendenti musicali contratti assolutamente irrisori e inaccettabili, che sono stati mandati online come si manda una mailing di pubblicità di un discount, senza possibilità di negoziare, anzi con la minaccia che chiunque non avesse accettato queste condizioni si sarebbe visto cancellare da YouTube. Il tutto è avvenuto senza alcun rispetto per aziende indipendenti americane e inglesi di grande portata e impatto economico e culturale (4AD, Matador, Rough Trade, Xl, Domino…). Credo di aver inteso il loro modello: avere uno YouTube mondiale che dialoga con quattro, cinque, al massimo dieci grandi aggregatori, ovvero le grandi multinazionali americane musicali e cinematografiche e i grandi aggregatori che hanno già magari mille piccoli indipendenti sotto di loro, eliminando tutti i rapporti diretti con i singoli indipendenti.
In sostanza si vuole trasformare questi canali in canali esclusivamente di profitto che non tengono più conto dell’elemento della diversità culturale, diversità culturale che hanno utilizzato all’inizio allo scopo di raggiungere una massa critica di produttori e consumatori, in cambio, come si diceva, di VISIBILITÀ.
Questo atteggiamento potrebbe rivelarsi un “boomerang” per YouTube?
Credo che non abbiano fatto i conti con due cose: 1) che tra questi indipendenti ci sono aziende importanti che vendono a livello mondiale, perché ormai il mercato non è più solamente in mano a quei tre o quattro grandi distributori com’era fino a qualche anno fa. 2) il non secondario danno di immagine che ne stanno ricavando, nel senso che da ogni parte dei Paesi europei, per quanto posso monitorare, la Francia, l’Inghilterra, la Germania, si stanno levando proteste all’ennesima potenza. Non so quanto questo gli convenga da un punto di vista economico nel medio periodo. Ecco. Vedremo. Loro sembrano molto convinti.
La cosa potrebbe favorire l’ingresso di nuovi soggetti nel mercato dello streaming… Apple ad esempio ha di recente comprato la Beats Electronics, che tra le altre cose produce servizi per lo streaming musicale. È ipotizzabile un nuovo soggetto che entra in campo con un servizio di streaming a condizioni più eque, ergendosi a paladino degli indipendenti? Avrebbe un impatto pubblicitario non indifferente…
Questo comportamento di YouTube, a quanto ci dice la WIN, alla quale come Audiocoop siamo associati, è un atteggiamento troppo dittatoriale che rischia effettivamente, in maniera positiva credo, di creare della alternative. Credo che potrebbe innescare un fenomeno positivo, magari di concerto con gli altri indipendenti che ti citavo prima e che hanno il potere dominante (Beggars Group, Domino ecc), penso che sarebbe positivo soprattutto per le nuove realtà…
Quale impatto avrà la situazione che si sta delineando sulla musica indipendente italiana?
Dal punto di vista economico quasi nullo, perché gli indipendenti italiani, escluso qualche grande indipendente, ricevono ben poco da YouTube, si parla di cifre minimali. Il danno economico è poco rilevante. C’è un grande danno, lo dico, alla libera informazione: YouTube si è sempre posto come un canale che dava possibilità a tutti. E questa possibilità l’ha data. La toglie ora, come poteva fare un feudatario nel medio evo con gli schiavi, con la plebe, quando decideva unilateralmente quale fosse il tipo di rapporto. Credo che sia un danno culturale, che danneggia la diversità culturale, e che vada impedito non tanto dalle case discografiche indipendenti, che sono dei privati, quanto dal sistema pubblico di tutela delle diversità culturali, quindi penso alla Commissione Europea. Almunia è stato già interpellato sull’abuso di posizione dominante da parte di YouTube. Poi penso ai Ministri dei Beni Culturali dei singoli Paesi e penso alle società di autori e editori come la nostra SIAE e quelle degli altri Paesi, che devono opporsi in maniera drastica a questo tipo di impostazione. È di ieri sera la presa di posizione di Gino Paoli presidente della SIAE a supporto della nostra campagna come Audiocoop.
Come si stanno organizzando le case indipendenti italiane?
Noi come AudioCoop abbiamo raccolto la protesta dei nostri associati, che sono 170 anche indipendenti, e abbiamo aderito alla protesta della WIN. Abbiamo chiesto che si attivassero anche le altre associazioni, quindi ci sono state la PMI (Produttori Musicali Indipendenti) guidata dalla Sugar di Caterina Caselli o la Carosello che pubblica Emis Killa per citarne due, che hanno anche loro aderito, chiedendo di fare un tavolo al Ministero con i rappresentanti di YouTube Italia, a cui ha anche aderito la FIMI, cioè le major italiane. Questo ci fa capire la gravità della cosa: YouTube ha deciso tutto questo bypassando Ministeri, SIAE e i punti di riferimento delle major nei singoli Paesi, con quattro cinque persone, per così dire, in America. Punto. Questo è il grande monopolio. Questa è la grande multinazionale dell’informazione e della comunicazione culturale che va assolutamente contrastata, come d’altronde ci dicono tutte le direttive europee su questi temi, che vanno a favore della diversità culturale. YouTube in questo momento è un pericolo gravissimo per quello che sanciscono le direttive europee, e quindi va fermato, perché se non si ferma adesso altri soggetti cercheranno di fare lo stesso.
C’è una mobilitazione a livello mondiale?
Mah, a quello che vedo, dalla Svezia alla Korea, all’America, all’Inghilterra per citare i posti più lontani, fino alla Spagna, ci sono delle mobilitazioni degli indipendenti, ma anche di quei supporti legati alla cultura, contro questo tipo di impostazione, da un lato anche incomprensibile nella sua aggressività, a meno che non abbiano in mano dei dati che la motivano. Altrimenti non si spiega tanta aggressività contro gli indipendenti, anche contro indipendenti che fanno fatturati rilevanti.
E per quanto riguarda Spotify?
Andando a discutere il modello di YouTube è ovvio che abbiamo chiesto al Ministro per i Beni Culturali di fare un tavolo che rimetta in discussione anche i rapporti che ci sono con Spotify e Deezer, visto che proprio questi si stanno rivelando non più solo degli elementi di semplice promozione e visibilità come si proponevano all’inizio: inizialmente, in un momento di sviluppo, far ascoltare i brani gratuitamente viene proposto come un “servizio” che dà visibilità, ma far ascoltare gratuitamente i brani comporta anche un minore introito a chi investe nello loro produzione, e quindi deve essere preso in considerazione un “equo compenso” di questo mancato introito. Spotify e Deezer devono essere chiamati a un tavolo comune per rivedere i termini di un rapporto che sia utile, proficuamente, per tutti.
Espandendosi il bacino di utenza di Spotify e YouTube (e quindi il numero generale dei clic e degli abbonati) le cifre diventerebbero più congrue per tutti?
Il dato fondamentale è che in partenza ci sono delle cifre infinitesimali per ogni clic. E quindi queste vanno alzate. Da lì in poi si può ragionare su quale può essere un modello. Però, quello che chiede tutto il mondo indipendente, ma non solo indipendente, è di alzare la quota dei clic. Se pensiamo che oggi – nel concetto di un quindicenne – cliccare un video su YouTube o cliccare un brano di Spotify equivale ad acquistare un Cd singolo vent’anni fa o un 45 giri quarant’anni fa, capiamo bene quant’è la perdita in termini economici degli artisti e di tutta la filiera creativa. Un tempo con un distributore fisico si riusciva a incassare intorno al 30% del totale, oltre alla piena acquisizione di tutti i diritti.
Nigel Godrich, produttore dei Radiohead, in polemica con Spotify sosteneva che se la gente nel ’73 avesse ascoltato i Pink Floyd su Spotify invece che comprarne i dischi, probabilmente Dark Side Of The Moon non sarebbe mai stato fatto, perché sarebbe risultato troppo costoso.
Dark Side Of the Moon avrebbe incassato un decimo, o meglio, un millesimo di quello che ha incassato! E forse non si sarebbe fatto se ci fosse stato questo tipo di modello. È chiaro che queste aziende devono essere chiamate dal Ministero a rifare dei contratti con le società di autori, editori e dei diritti connessi, più attuali e più al passo coi tempi e con le cifre. Oggi a livello europeo sono cifre troppo basse. Sono cifre che hanno sì permesso lo sviluppo di queste realtà, ma ora che cominciano a introitare devono rendere una quota dignitosa a tutta la filiera creativa degli artisti, dei produttori e degli editori.
Alcuni artisti hanno sottolineato polemicamente che non vedono il problema di non essere su Spotify o YouTube, perché ci sono mezzi anche più diretti per promuovere e rendere reperibile la propria musica. È davvero così? È ancora necessario il ruolo di questi “mediatori” tra artisti e pubblico?
Bisogna vedere che tipo di obiettivo si ha, faccio un esempio: oggi io sono un artista indipendente, decido di fare un nuovo progetto musicale, faccio un crowdfunding e raccolgo cinquemila euro per realizzare un disco che mi permetta di fare venti date e di farmi conoscere attraverso i canali e il web alternativi, e in questo modo mi creo la mia community ristretta, che mi dà un piccolo successo di nicchia anche senza gli strumenti Spotify o YouTube. Credo però che se vogliamo far sì che i grandi artisti indipendenti italiani mantengano le quote di mercato e di sviluppo che sono riusciti a ottenere con la discografia e con i primi modelli di musica online (quote che però si sono in parte perse con il download e con lo streaming), sia necessario, da un lato creare modelli alternativi, perché questi sono indispensabili: il mercato di massa non è mai aperto a cose nuove, ma è aperto alle certezze, a cose già sentite che replicano il già sentito. Ma dall’altro in quei modelli di massa bisogna entrarci e conquistarli, perché solo in questo modo si modificano i gusti di un Paese. Se oggi noi abbiamo la possibilità di avere Baustelle, Afterhours, Teatro degli Orrori, solo per citare i nomi più importanti e riconosciuti fra i top della nuova musica italiana, è perché noi come MEI insieme a tanti altri abbiamo lavorato non per stare ai margini e fare modelli alternativi, ma per garantire a questi modelli alternativi l’ingresso all’interno dei modelli di massa, e ciò senza cambiare o snaturarne la propria identità.
È quindi possibile che questo atteggiamento di YouTube abbia fomentato una sorta di reazione di orgoglio dal punto di vista degli indipendenti e una presa di coscienza dei problemi da parte del pubblico?
È chiaro che a YouTube mondiale dei piccoli indipendenti italiani, diciamolo francamente, non gliene può fregare di meno. Se fosse solo Giordano Sangiorgi a protestare sarebbe una sconfitta certa, lo dico con molta umiltà e con la certezza di quello che si può rappresentare. Se però alla protesta di Giordano Sangiorgi si associa quella di Gino Paoli presidente della SIAE, ecco che per YouTube in Italia la cosa dovrebbe diventare un po’ più preoccupante. Credo che il modello che è stato fatto in Germania di bannare YouTube, perché non riconosceva i diritti come richiesto da Ministero e dalle società di autori e editori tedesche si possa proporre anche in Italia. Credo che questa possa essere una proposta, e la faccio attraverso questa intervista: se YouTube non ascolta le esigenze del settore culturale e musicale del nostro Paese si può tranquillamente bannare e si possono tranquillamente vedere i video attraverso altri canali. È in questo modo che si abbatte il monopolio. Così come credo si possa tranquillamente pensare piano piano di togliere autonomamente i video da YouTube, oppure di immettere quelli nuovi su altri mercati. Abbiamo esempi recentissimi di alcuni gruppi e artisti che decidono di uscire NON su YouTube. Già questo è il segnale di un lavoro verso la costruzione di un’alternativa che, ripeto – nei limiti che possono avere gli indipendenti – va però sempre ricercata, perché legarsi mani e piedi alle multinazionali significa dare la propria attività in mano a loro, che possono decidere in 48 anche di cancellare non solo un singolo canale di YouTube, ma anche proprio tutto il progetto e rifarne uno nuovo, guardando a dati puramente economici.
Per saperne di più: www.meiweb.it