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14 aprile 2015 | Pink Flag | pinkflag.com |
Incredibile, solo così si può definire la storia musicale del quartetto londinese formato nel 1976 da un gruppo di studenti di arte: Colin Newman, Graham Lewis, Robert Grey e Bruce Gilbert (a cui è subentrato nel 2004 il chitarrista Matt Simms). I Wire infatti, oltre ad aver delineato le basi del post punk inglese nel 1977/79 con tre capolavori quali “Pink Flag”, “Chairs Missing” e “154”, insieme ai blasonati Cure e Joy Division, ancora oggi dopo circa 40 anni e ben 14 dischi al loro attivo, riescono ancora a stupire confezionando lavori molto ispirati.
Strepitoso il loro ritorno sulle scene dopo circa 12 anni di silenzio (e dopo aver scaldato animi e cuori con diversi concerti da cui è scaturito il live “The Third Day”) con “Send” del 2003, un disco basato su tre accordi sparati a tutto volume, capace di prendere a calci in faccia le nuove generazioni grazie ad un sound orientato verso certo cyber punk à la Ministry. Seguito dai successivi “Object 47″ (2008) e “Red Barked Tree” (2011). Meno convincente invece, il recente “Change Becomes Us” (2013) dove i nostri recuperano materiale di archivio del periodo 78/80, attualizzandolo ai nostri tempi.
L’ultimo “Wire” (curioso la scelta di intitolare il disco con il nome del gruppo, quasi ad indicare un nuovo inizio per la band) può essere invece paragonato, sia per l’intensità musicale, che per la costruzione lineare delle canzoni, alle prime produzioni della band. Il disco parte davvero forte con i primi tre pezzi collocabili nel periodo Pink Flag / Chairs Missing: parliamo di “Blogging”, “Shifting” e “Burning Bridges”. Brani strutturati su ampie melodie e ritmi marziali con innesto, su “Shifting”, anche di una meravigliosa chitarra acustica, cosa davvero inusuale per il gruppo.
“In Manchester” è un colpo al cuore. Un episodio dotato di evidenti riferimenti al lirismo degli Smiths, e con un ritornello che si appiccica nella mente come le api al miele. Difficile non rimanerne estasiati. Mentre “Octopus” fa il verso ai Cure degli inizi (paradossi temporali?). Una curiosità: andando a spulciare una vecchia intervista a Robert Smith, gli si chiedeva come mai i Cure con “Seventeen Seconds” avessero variato le sonorità in modo così brusco rispetto all’esordio. Smith confessò che molto era dipeso dall’effetto scioccante provocato da un live di spalla proprio ai Wire. Ed il cerchio si chiude, visto che, a ben vedere, la somiglianza di questa canzone a “Jumping Someone Else’s Train” (in realtà un singolo che fu incluso nella versione americana dell’esordio dei Cure) è davvero impressionante. “Harpooned” – che insieme a “In Manchester” rappresenta lo zenith del disco Ndr – costituisce la perfetta sintesi tra i Joy Division di “New Dawn Fades” e i God Machine del primo album. Una canzone memorabile con un crescendo finale da brividi.
Wire è un disco che si fa ascoltare tutto d’un fiato, senza cadute di tono, che pur non raggiungendo le vette irraggiungibili dei primi quattro dischi, si colloca sicuramente fin d’ora tra le migliori uscite di quest’anno.