Jaga Jazzist – Starfire

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Sui Jaga Jazzist si spendono più etichette che parole. Da sempre si tenta di inquadrare la prestigiosa formazione norvegese all’interno di celle stilistiche che consentano al recensore di turno di trovare un appiglio, si tratti di: avantgarde, electro-jazz, post-rock, IDM, prog-jazz, space-jazz, cripto-jazz, addirittura brojazz (!!!) e brostep.

La verità è che siamo di fronte ad otto jazzisti che giocano con l’elettronica. Immaginate John Coltrane in mezzo ai Caravan e agli Stereolab e aggiungete al tutto piccole dosi del repertorio della Warp Records e Ninja Tune – proprio grazie a quest’ultima etichetta i Jaga si acquietarono un pochino grazie a quel “What We Must” di ormai dieci anni fa: lasciando che il connubio fra le influenze à la TortoiseSlint associate al Krautrock prenda il sopravvento.

Difficili da descrivere ma non così ostici come si pensa. Tanti li accusano di non avere una stabilità, di essere fuori controllo, della troppa sperimentazione e di non trovare più una forma urbis. Mettiamoci anche il fatto che Lars Horntveth (mente principale della formazione) si è trasferito a Los Angeles, e che questo “Starfire” è stato pensato in maniera autonoma dal sassofonista – che per l’occasione è anche pianista, tastierista, programmatore, flautista, clarinettista basso, e chi più ne ha più ne metta – per poi essere spedito in mezzo ai fiordi norvegesi agli altri sette; e capirete il perché delle accuse di cui sopra.

Certo, non si può parlare di lavoro organico rimanendo ancorati a un concetto di organicità che guarda al rock o a un certo tipo di musica elettronica. Qui c’è sempre una sperimentazione controllata, c’è follia, ci sono i fraseggi e gli assoli che il jazz richiede. La stupenda inziale “Starfire” sarebbe un bellissimo EP a sé stante, dove gli arrangiamenti mettono in evidenza un’ incredibile calore degli strumenti: chitarra, batteria e flauti collaborano reciprocamente nella maniera più naturale possibile. La struttura del brano vive di saliscendi sempre coerenti, che strizzano spesso l’occhio a “Paranoid Android” oppure – quando il progressive prende il sopravvento – ai primissimi Yellow Magic Orchestra.

Con “Big City Music” incappiamo in un “buco nero” dove l’elettronica si fa più concreta, mentre Martin arrabatta dietro le pelli per rimanere sempre sotto le righe, cercando di evitare un approccio “heavy” – tipo i vicini Shining. Al contrario, nella calma e cauta “Shinkansen”, la traccia appena descritta viene ri-arrangiata in versione acustica, lasciando riemergere le ombre di “Tong Poo” o “Technopolis” degli YMO.

Oban” è primavera allo stato puro; ma anche elettronica calda, ritmi balearici vicini al dancefloor. Un brano che per l’occasione è stato remixato dal vicino di casa Todd Terje. Inoltre, la Smalltown Supersound, l’etichetta che da sempre distribuisce i Jaga Jazzist in Norvegia, è la stessa label di altri artisti dance come appunto Terje, Prins Thomas e Lindstrøm, e che come descritto incarna un certo gusto dance.

Si chiude con “Prungen”, altro brano non di facilissima assimilazione ma che rispetto a “Big City Music” vanta un notevole apporto armonico. Interessanti le derive mediorientali, ed il caldo etno-jazz su chitarre noiseggianti e synth elettrici. Le schizofrenie poste in coda ci ricordano le origini dei nostri: un panorama fatto di King Crimson e Soft Machine tanto ragguardevole, per quanto riguarda la perizia tecnica, quanto disorientante in rapporto alla prima parte.

Eppure, una volta giunti al termine, forse interdetti dalla complessità della proposta, scommetto che andrete subito a riascoltare “Starfire” e poi la magica “Shinkansen” riprendendo così in mano sia Lindstrøm che Todd Terje, tenendo “Oban” come ciliegina sulla torta.