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23 ottobre 2015 | Drag City | joanna-newsom |
Joanna Newsom, la splendida Sortilège del film Vizio di forma di Paul Thomas Anderson, è una grande musicista che non ha nulla da invidiare ai nomi più blasonati – quelli che ti vengono in mente quando cerchi un paragone vocale nell’albero genealogico del “folk al femminile”. Scomodare Joni Mitchell o Kate Bush, ma anche pensare a Karen Dalton o a Judee Sill può certo servire, ma non ha molto senso per dare l’idea di una voce che è stata definita, giustamente, “inaddomesticabile”. L’unica soluzione è dedicare un’ora del proprio tempo ad ascoltare “Divers”, quarto disco della giovane artista americana appena uscito per Drag City Records – come anche i tre album che lo hanno preceduto –, e anticipato dal singolo “Sapokanikan“, con un video diretto dallo stesso P.T. Anderson e girato nel quartiere newyorchese del Greenwich Village. Sicuramente uno dei brani più sofisticati del disco, tanto che ci sarebbe da arrendersi al solo pensiero. In effetti l’orchestrazione barocca – la Newsom è una talentuosa polistrumentista con una passione per l’arpa – e una voce che cambia continuamente forma – fino a confondersi con i rumori della natura e i versi degli animali notturni – richiedono un certo impegno, o per meglio dire la curiosità di immergersi ripetutamente nelle 11 tracce del disco, come palombari – questo è il significato letterale del titolo del disco, Divers, e non a caso.
Anche per chi mastica l’inglese sarà a tratti quasi impossibile comprendere il cantato di Joanna da subito. Un effetto “filastrocca da bosco incantato” che potrebbe lasciar interdetti già dall’opener “Anedoctes”; implementandosi fino al brano che dà il titolo all’album, dove improvvisamente afferriamo, con gioia, uno dei versi più belli del disco:
And in an infinite regress:
Tell me, why is the pain of birth
lighter borne than the pain of death?
I ain’t saying that I loved you first,
but I loved you best.
E anche l’improvvisa virata malinconica e sonnolenta in brani come “The thing I Say” o “Same Old Man” potrebbe lasciare spiazzati. La verità è che solo assaporando l’opera per intero si può comprendere quanto ogni traccia sia in realtà l’ottimo presagio di quella successiva: fino all’ultimo brano, l’indefinibile picco poetico di “Time, as a Symptom”, che conclude un disco sottilmente meraviglioso non solo dal punto di vista musicale. Un lavoro che non eccelle solo per arrangiamenti e cura del suono – a tratti anche maniacali –, ma anche per la forza e il coraggio lirico che spingono Joanna Newsom a osare oltre i confini del fraseggio con una voce che frantuma i vetri e vola su alte frequenze con versi abbaglianti:
But stand brave, life-liver,
bleeding out your days
in the river of time.
Stand brave:
time moves both ways,
in the nullifying, defeating, negating, repeating
joy of life
[…]
And it pains me to say, I was wrong.
Love is not a symptom of time.
Time is just a symptom of love