Vizio Di Forma di Paul Thomas Anderson

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Sotto il selciato, la spiaggia!”. Il motto libertario del maggio francese in Inherent Vice di Thomas Pynchon sta in esergo al romanzo. Rivendicazione nostalgica ideale per slittare nel trip immersivo di una prosa sovraccarica e divagante. Avvolta nella nebbia salmastra, chimica, crepuscolare che impaluda le coste californiane al sorgere dei ’70 di una «metafisica hippie» ridotta all’astinenza, attorcigliata sul lettore spiazzato, continuamente rimandato allo scioglimento della trama centrifuga e infittita. Un panorama sfumato, dolcemente sospeso che Paul Thomas Anderson traspone alle lettera, con perfetta aderenza mimetica nel suo Vizio di forma, assumendo la sostanza porosa di Pynchon come una polvere, per tastarne gli effetti – (anti)narrativi, formali, cromatici, psicofisici, grotteschi – in un filtro cinematografico lisergico ma tecnicamente lucido, controllato eppure ugualmente inebetito, allentato ma non certo inibito.

Dischiudendo subito l’immagine della spiaggia e recuperando la citazione sessantottina in fondo, dopo i titoli di coda, a chiusura della bolla temporale condensata nella soundtrack affettuosa – Journey trough the past di Neil Young in testa – che vede sfilare gli ultimi, coraggiosi scampoli di una tappezzeria umana in via d’estinzione. Isole felici e zattere solitarie alla deriva in un sogno d’evasione che ha preso definitivamente il largo. È il lungo, elegiaco addio di Anderson a una stagione irripetibile, che infoltisce il discorso intimo e politico di una filmografia di periodizzazione modulata. Arenarsi placidamente distesi, o incagliarsi nervosamente sfibrati sulle spiagge della Storia. Prima, nei tenui, grigi e irrigiditi ’50, i (de)relitti dispersi ai margini della schizofrenia congenita di un Sistema scisso, bicefalo, sbrindellato dalla guerra e ammaliato da ridicole velleità di pacificazione interiore (The Master). Ora, in pieni postumi da sbornia Sixties, alle soglie dello smarrimento settantesco, gli storditi superstiti al naufragio allucinogeno dell’onda hippie (Vizio di forma), che – ritrattasi la marea di fantasmagoriche utopie sotto acido – va esaurendosi come una scia sull’acqua, lasciandosi dietro appena qualche increspatura sbollita. Lo scorrere immoto e silenzioso della spuma oceanica che bagna ricordi e traversate mentali di The Master come i percorsi oscuri dello schooner Golden Fang in Inherent Vice.

Due film e due prologhi speculari, a tracciare la continuità di una rotta comunque accidentata e indecifrabile. Il frastornato marine Freddie Quell, parcheggiato in riva al Pacifico in attesa di congedo, non fa (più) distinzione tra il sesso femminile, le chiazze di Rorschach e l’incavo di una donna di sabbia, sollazzandosi compulsivamente a bordo mare. Il detective Doc Sportello – indagatore dell’incubo paranoico nixoniano, rannicchiato in un rifugio sul (finto) litorale di Gordita Beach – non sa (o non vuole) distinguere se l’ex fiamma Shasta sia presenza corporea o allucinazione, macchia impregnata nel suo sguardo appannato, che riattizza col fumo oppiaceo dell’ennesima canna sogni perduti e desideri assopiti. Oscillazioni, scarti e affinità tra due temporalità e due personaggi – per cui Sportello pare un Freddie Quell che rinnega i veleni alcolici e la Causa di Lancaster Dodd per abbracciare droghe e filosofia peace & love – si saldano su tic e sbalzi del volto stinto e strabuzzante di un Joaquin Phoenix in stato di grazia. Trascinandosi in una recitazione intronata che addomestica le pose sghembe e storpiate, le smorfie stirate di livore, i grugniti ringhiosi del servo Quell per istupidirsi nell’espressione teneramente sbatacchiata e sottilmente autistica di Sportello. Gli occhi aggressivi del primo stemperati nell’offuscamento liquido di quelli del secondo, svuotati come braceri spenti.

Non essere più padroni del proprio sguardo, dello scavo regressivo dentro pulsioni latenti e autodistruttive (The Master). Oppure esserlo in maniera radicale, al punto di riconfigurare quello sguardo fino a sovrapporlo alla realtà, riverniciata di sensi ottundenti e ottusi. Il trip sperimentato da Sportello è lo stesso somministrato allo spettatore: rattrappirsi e straniarsi, distrarsi, ridere per qualche buffo dentista tarantiniano (Rudy Blatnoyd), non capire (quasi) nulla, rifiutarsi di vedere le cose come stanno davvero, o come dovrebbero essere, come ultimo spazio di conservazione di libertà e coscienza individualistica.

«A quanto pare c’erano questi due Doc: il Doc Visibile, che era approssimativamente il suo corpo, e il Doc Invisibile, che era la sua mente; e da quello che riusciva a capire, i due erano impegnati in una specie di irosa lotta che durava da un pò» descrive Pynchon in un punto del romanzo. È il conflitto cardine che guida il cinema di P.T. Anderson alla maturazione e al raffinamento asciutto e conciso di uno stile un tempo convulsamente virtuosistico (Boogie Nights, Magnolia): lo scontro, basico e frontale, del corpo e della mente, rintracciato in defezioni e ricadute croniche dell’imperialismo americano recluso in un manicomio-setta (l’improbabile Chryskylodon dove Sportello scova il confinato Mickey Wolfmann – non così nel romanzo, dove il costruttore è esiliato a Las Vegas – proprio come il Marlowe de Il lungo addio scopriva lo scrittore alcolizzato imprigionato nella casa di cura). Infermità patologiche radiografate clinicamente nei sovrastanti primi piani di volti segnati e consumati (si tratti di una svastica tatuata, il pallore o l’arrossamento dopo una sniffata, denti mangiucchiati dall’eroina). Colti a studiarsi, penetrarsi e duellare irremovibili in un campo/controcampo infinito. Spezzato qua e là da piani sequenza fissi, fumosi e dilatati che sostengono lo sforzo morale di comprendere in sé, agganciare, avvicinare l’altro e liberarlo (i colloqui sussurrati tra Doc e Coy Harlingen), o al contrario promanano lo slancio violento che dell’altro si riappropria anche brutalmente (la scena a letto con Shasta, risarcimento sessuale costrittivo che ha un’eco di Sergio Leone). Dialettica di volti e corpi usati come sponde parzialmente risolta dalle voci di Doc e dello «sbirro rinascimentale» Bigfoot fuse in uno sballo condiviso.

Natura, cultura e controcultura. Alla disamina umana intercettata nei rapporti di forza tra istinti ferini e fedi raziocinanti (Il petroliere, ancora The Master), Anderson vi aggiunge l’epopea hippie e le sue scombinate deviazioni nonsense, il tracimare di stimolazioni eccitate e illusioni sommerse dal reazionario conformismo capitalista. Avviandosi così verso il tramonto di un’era e di un’estetica, il plot si sgonfia in anticlimax in serie e lo stile si prosciuga in un noir dell’anima svaporato, ovattato, attutito. Come nell’ascolto assorto, vicino eppure distante del rumore di fondo di una conchiglia che riporta all’orecchio il rumore del mare, e al cuore canzoni, amanti, facce, fantasmi e figure di un sentimento cancellato dal tempo. “Under the paving stones, the beach!”. Non più abbracciati a un seno di sabbia come Freddie Quell, ma altrettanto precariamente aggrappati a una donna imprendibile e sfuggente come un abbaglio, verso l’ultimo (road)trip senza meta.