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01/04/2016 | v4v records coypu records |
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Pensavate che il post-hardcore, quello più peso, più oscuro, quello incazzato come una “Belva”, fosse ormai un capitolo chiuso, almeno per l’Italia? E invece no. Siamo solo all’inizio. La prova è in questo extended play d’esordio dei Bruuno, che s’intitola proprio, guarda caso, “Belva”. Diciassette minuti che farebbero passare la voglia di ridere anche al mitico Eddie Murphy, che rovinerebbero la giornata persino a uno che ha appena sbancato alla lotteria (o giocando un gratta e vinci, se preferite). E questo perché? Perché il nostro paese fa schifo! Ma il problema è molto più grande. “We’ve got a bigger problem now”, direbbe Jello Biafra coi suoi Dead Kennedys. Solo che qui non si tratta di politici californiani turbo-capitalisti e/o xenofobi da mettere alla berlina, qui si tratta dell’uomo e del grande male che lo affligge da secoli: l’esistenza stessa.
Jean-Paul Sartre, sbucando fuori da un bignami tipo sagoma pieghevole, ci ricorderebbe che “l’inferno sono gli altri”, mentre Andrea Appino risponderebbe: “e gli altri siamo noi, e gli altri siamo tutti, e proprio questo mi spaventa: siamo diventati brutti”. Ma qui sta il punto: lo siamo diventati, o lo siamo sempre stati? Se optassimo per la prima, ecco che arriverebbe Francesco Bianconi a cantarci: “invece è esistenziale la mia bestialità”, come fa nel brano “Maya colpisce ancora“. Tutto questo per dire che il disco dei Bruuno, in un impeto di nausea sartriana, di perdita d’identità del soggetto, del soggetto perso fra gli oggetti, sepolto sotto le macerie della Storia, scolpisce, a suon di mazzate sugli strumenti, un viaggio senza ritorno nella notte dell’essere umano (umano?), un viaggio senza luce alla fine del tunnel. E cos’è che rimane? Una targa commemorativa, su una lavatrice in un palazzo abbandonato: “Homo Homini Lupus”. E nulla più.
Insomma, “Belva” è un disco che non concede tregua, che vuole sbranare tutto e tutti (compresi i brani, sbranati per l’appunto come esige la prassi del post-hardcore più duro, disarmonico, e catacombale). “Belva” è un disco di chitarre che sembrano artigli, di bassi che sembrano tuoni, di batterie che sembrano sismi, e di voci che sembrano megafoni di sinistre processioni. Il mondo è nero, tendente al grigio, nell’universo dei Bruuno. E a tratti pare di sentire Il Teatro degli Orrori del periodo d’oro, si fa per dire, ma con molta meno ironia. E anche i primi Massimo Volume, quelli di “Stanze”, ma, se possibile, con ancor meno gioia di vivere. Ritroviamo la rabbia e la precisione metronomica di Drive Like Jehu e Jesus Lizard, fra i massimi messia del genere, ma dirette verso un buio sempre più cupo, sempre più asfissiante. Il brano migliore? “Ruggire come le porte”. Un suggerimento? La prossima volta, magari, un po’ meno nero. Giusto un po’. Per il resto, basta così. Diciassette minuti all’inferno. Diciassette minuti in Italia. Diciassette minuti in (ferina) compagnia dei Bruuno. Come a voler dire: in compagnia dei lupi.