Smashing Pumpkins – Adore

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A rendere la musica cinica e punk non basta una doppia chitarra grattuggiata. Una considerazione del genere sarebbe stata sufficiente per tenere alla larga dalle scene i vari Bush e Creed, forse con l’aiuto dell’ ”unplugged” dei Nirvana e di un disegnino esplicativo. Ma si sa che “non c’è peggior sordo” di “chi bello vuole apparire senza mai soffrire” e così, anche i campanelli d’allarme lanciati dal sempre saggio Billy Corgan a nineties inoltrati sono destinati a cadere nel vuoto cosmico.

Un paio di illustri conoscenze del giro e un’attitudine per l’arrangiamento chitarroso, avevano contribuito a far classificare i suoi Pumpkins negli schedari del movimento grunge. Nonostante i vari “ Noi non portiamo quella robaccia punk-rock” il successo dell’enorme “The mellon Collie and Infinite Sadness” lo aveva spinto nel pentolone assieme a Soundgarden, Nirvana, Pearl Jam ma anche agli altri coinquilini meno graditi. Nel 1997 con l’uscita di Adore il rifiuto dell’usurato movimento di Seattle si rifletterà nella musica stessa: il congedo di Jimmy Chamberlin riporta nella band quella drum machine usata durante i primi show di spalla ai Jane’s Addiction, e le atmosfere elettro-malinconiche spianano la strada al post-grunge nonché agli svariati insulti di “rammollimento”. Invece nessun album targato dalle Zucche è mai stato cinico e disilluso come Adore, che è in tutto e per tutto un figlio naturale della recente morte della madre di Billy, e del crollo di consolidate certezze che un evento nel genere produce in ogni essere umano.

Tanto più in un essere come il nostro Corgan, non esattamente un gioviamone-solare-con-leccalecca (almeno fino all’esperienza Zwan). Definitivamente orfano, decide di farla finita e di andare oltre ogni strascico ancora vagamente adolescenziale del recente passato: “Questo album è senza dubbio un addio a quello che considero il mio rock and roll. Qualunque cosa fosse il rock n’ roll per la nostra generazione. Quello che intendo è che è finito e che non c’è più niente di nuovo da fare. E’ tempo di cambiare.” Eppure, è proprio tra queste tracce che dimostra di essere “innamorato della mia tristezza” come aveva cantato qualche anno prima in un’incazzata Zero. E per più di settanta minuti non fa altro che avvolgersi dentro quella tristezza, gridandole contro senza riuscire a staccarsene, in un rapporto morboso che è letteralmente un piangersi addosso. Il simmetrico contrasto fra una presa di posizione stilistica radicale e un quanto mai stagnante atteggiamento morale produce un lavoro splendidamente controverso, vero ritratto del suo demiurgo creatore.

Archiviati i Pumpkins come “patetici mollaccioni” in molti, tra fans e critica, abbandoneranno il loro seguito per rivolgersi a sbarbati neo-gruppetti punk-rock che si dicono “fuckin’ ready” a saccheggiare le spoglie ancora calde di quel che fu l’alternative rock americano… necrofilia musicale!