Acquista: | Data di Uscita: | Etichetta: | Sito: | Voto: (da 1 a 5) |
1994 | Dgc |
Per quanto smodatamente amiate Nevermind e per quanto gli accordi di “Smells Like Teen Spirit” o “Lithium” abbiano fatto (o facciano tuttora) da colonna sonora alle vostre sacrosante incazzature adolescenziali, è a questo disco che dovete rivolgervi per carpire il vero insegnamento di Kurt Donald Cobain.
Al di là di ogni intervista più o meno postuma o di ogni biografia più o meno autorizzata, “In Utero” soltanto contiene l’ambito testamento del vocalist dei Nirvana: forse Cobain non conosceva ancora la sua sorte per certa, ma è sicuro che fosse arrivato ad una lucida (e tutt’altro che positiva) analisi del “se stesso post-Nevermind”. Lo dimostra innanzitutto il suono del disco stesso: sporco, cattivo, quasi noise, lontano anni luce dal sound patinato del suo predecessore, e pertanto vero specchio degli ultimi Nirvana, intenzionati a riconquistare una credibilità undergorund.
Steve Albini, stimato produttore Punk Rock, cattura ogni sfumatura disseminando la stanza di registrazione di microfoni con una precisione capillare che permette di salvaguardare tutte quelle rozzezze trascurate dal mix di Andy Wallace 3 anni prima. Un ritorno alle atmosfere del primo Bleach senza dimenticare la ormai consolidata vena melodica. Lo dimostrano anche i testi, per la prima volta pubblicati su un vero e proprio booklet: “meglio così che leggere recensioni in cui quegli idioti riportano i testi sbagliati” – disse Kurt. Qui, vige sempre la regola del cut-up (eredità delle letture di William Borroughs) e del non sense, eppure questa volta traspare qualche elemento più esplicito, qualche prezioso rimando auto-referenziale che fu preso d’assalto dai filologi del rock, con interpretazione svariatissime.
Del resto fin dall’opener “Serve The Servants” è chiaro il piglio biografico che il leader dei Nirvana vuole dare alla sua opera: sentirete Cobain dissacrare l’immagine che l’opinione comune si era fatta di lui con una (auto)ironia caustica ed amara, come solo l’ironia di certo Punk sa essere. “Teenage Angst had paid off Well, now I’m bored and old” sono i primi versi di un pezzo capace di disintegrare letteralmente quanto detto con Smells Like Teen Spirit: la rabbia adolescenziale ha ormai lasciato il posto ad un più maturo e disincantato rifiuto del business, del mondo e delle regole che li dominano. Per il resto della canzone Kurt si dedica ai propri rapporti personali diventati, suo malgrado, di dominio pubblico: quello con la “strega” Courtney ( “…she’s not a witch as we thought…” ) e l’altrettanto discussa relazione con i genitori, fautori di quel chiaccherato divorzio che a detta di Cobain è ormai diventato “such a Bore!”. Da poco egli aveva ripreso i contatti con il padre ( “I just want you to know that I don’t hate You any more” ), protagonista in passato di un rapporto dominato dall’indifferenza e dall’estranietà ( “I tried hard to have a father but instead I had a dad”).
L’intero disco è dominato da queste e altre tematiche personali, che dipingono un dettagliato ritratto del vero Kurt Cobain: la misantropìa in “Scentless Apprenctice” ( “Get Away, get a-way!”); il rapporto d’amore morboso e quasi patologico per Courtney, racchiuso nella loro scatola a forma di cuore; l’abuso e lo “stupro” dei media nei confronti della privacy del cantante; la presa di posizione accanto ad altri artisti additati come pericolosi dall’opinione comune ( l’attrice Frances Farmer di Seattle, etichettata come comunista e rinchiusa in un manicomio ispira la quinta traccia del disco); l’ironia su chi segue la massa e la moda per essere “cool” (Very Ape) e d’altra parte la rassegnazione ad essere incompatibile con la società circostante ( Dumb e Milk It); il riferimento all’uso di droghe e l’espressione di una volontà di “autoaborto” ( la pennyroyal è una mentuccia che , se distillata nel tè in quantità ingente, può portare alla morte del feto nella donna gravida che lo ingerisce); la parodia degli stilemi e delle politiche Radio Friendly e la finale presentazione di scuse (“All Apologies”) per essere ciò che la società non vorrebbe.
In Utero vendette appena la metà delle copie di Nevermind, perdendo la sfida con “Vs” dei rivali Pearl Jam e mandando in paranoia la Geffen: il forzato intervento di Scott Litt per missare i singoli “Heart Shaped Box” e “All Apologies”, la censura della Wall-Mart sul collage di feti sul retro del cd, le polemiche su Rape Me sono l’ulteriore conferma del fatto che i messaggi tramandati dai Nirvana sarebbero stati destinati a pochi eletti, a prescindere dalle preferenze della massa volubile. A tanti anni dalla morte di Kurt Cobain, lasciate sugli scaffali improbabili greatest hits e i diari segreti pubblicati (ennesima violazione per mano di Courtney) e riscoprite questo disco sotto una nuova luce, lasciando che sia lui, il Kurt-uomo a narrarvi le sue e le vostre paure.