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3 giugno 2016 | play it again sam | minor-victories.com |
Semplificando, i fattori che costituiscono i Minor Victories sono una quota di Mogwai, una di Slowdive e una di Editors. Stuart Braithwaite dei Mogwai, Rachel Goswell degli Slowdive e i fratelli Lockey (Justin degli Editors e James, regista) hanno voluto mettere in piedi questa cosa che, volenti o meno, ha l’etichetta “supergruppo” incollata sopra. Ma il risultato, naturalmente, non è la somma tout court delle band di appartenenza. C’è qualcosa che potrebbe anche richiamare l’esperienza degli A Perfect Circle. Certo, il paragone è lontano nella geografia e nell’attitudine. Eppure non è eccessivamente distante nel prodotto finito (per il mood) e soprattutto nella struttura di band assemblata (e assemblata bene).
La trama dei Minor Victories è uno shoegaze ad alti livelli di brumosità che, in quanto a coordinate storiche, si distende su tutti gli anni novanta. Tra i fattori che le band citate sopra portano in dote, qualcosa è dentro quest’album e qualcosa resta fuori.
Per esempio manca il lato più seducente degli Editors ma va detto che Justin Lockey non era nei primi Editors. Per intendersi, quelli che meno difettavano di fascino. La quota più sperimentale dei Mogwai compare saltuariamente e quando c’è, resta abbastanza sullo sfondo. Ma è una cosa che si adatta alla ragione sociale dei Minor Victories. Convince, a questo proposito, la quasi jam post-rock “The Thief”. Il lavoro funziona ottimamente quando si regge su linee melodiche che sembrano dettate da Rachel Goswell (“Scattered Ashes” con James Graham dei Twilight Sad). In quegli stessi frangenti il periodo storico di riferimento arretra un po’ e il tutto assume l’andamento nostalgico del finire degli ’80.
Insomma, è un disco di canzoni giudiziosamente intense, suonato in maniera dritta, a occhi chiusi. In questo senso, a dispetto dello status di gruppo assemblato, non suona artificioso. Allora ciò che oggi è manifestato dai fratelli Lockey e dai due soci era ieri un bisogno vero. Ad un certo punto compare pure Mark Kozelek (“For You Always”) e non ci sta nemmeno male. Invece, in certi pezzi, gli archi potevano essere usati con più parsimonia. Rischiano di sovraccaricare passaggi che non hanno bisogno di un suono così pieno. Se muro deve essere, allora che lo facciano le chitarre. E a occhi chiusi.