I Giardini di Chernobyl – Magnetica

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Facciamo un salto nei giardini che nessuno (più o meno) sa. Ma che tutti dovrebbero conoscere. Come I Giardini di Chernobyl, dove ora torniamo. C’eravamo già stati nella Cella Zero, e ci era piaciuto scorgere una via finalmente italiana (italofona) al rock degli A Perfect Circle, dei Deftones, dei Catherine Wheel. Metallo mischiato alla foschia dello shoegaze. La tardiva traduzione (ma meglio tardi che mai) di certi umori nineties (ma anche eighties, se andiamo un po’ a scavare) finalmente metabolizzati, finalmente riprodotti con coerenza, col giusto dosaggio di rabbia e introspezione, grazie a un sapiente studio dei timbri, e a una scrittura forte, forse non ancora fortissima, ma avviata verso un crescendo d’intenzione e d’intensità che promette(va) faville sempre più ardenti, come dimostra l’extended-play “Magnetica”, il secondo passo (in avanti) del trio capitanato dalla voce e dalla sei corde di Emanuele Caporaletti.

Fermi tutti però. Perché I Giardini di Chernobyl uno sguardo (nerissimo) lo lanciano anche dentro casa nostra (nostra e loro, ecco), andando a ripescare le (migliori) intuizioni melodiche dei Verdena prima maniera, quelli che ancora non avevano intonato il “Requiem” per i loro trascorsi grunge (anche lui è della partita, giusto?), e che ancora non erano salpati definitivamente verso rotte psichedeliche (ora esaltanti, ora estenuanti). Quando insomma bastava “Solo un grande sasso” per inscenare “Il suicidio dei samurai”. Dei bergamaschi il furioso trio di Ancona (oltre a Caporaletti, ci sono anche Stefano Cascella al basso, e Simone Raggetti alla batteria) sembra amare in particolar modo il refrain di “Miami Safari” e quello di “Luna”. Dall’unione di influenze tanto eterogenee (ma tutt’altro che inconciliabili) è nata dunque una creatura xenomorfa, dalla vena acida (tipo quella di “Alien”), ma dal cuore triste, forse addirittura tenero (e radioattivo, certo). 

Una forma-canzone ritrovata e (st)ruggente, esplosa fuori dal corpo di anni confusi e sovraccarichi, come un parassita che proprio non ne poteva più di starsene al suo posto. A lievitare, a soffrire. Una forma xenomorfa, l’abbiamo detto. Ma sempre più tangibile, sempre più riuscita. Questione di feeling. Questione di piano, di forte, e di fortissimo. Di ispirazione che viaggia insieme al suono, alle sue dinamiche. Quand’è così, che si tratti di canzoni, di pezzi strumentali, o chissà cos’altro, è del tutto indifferente. E se l’alieno davvero penetrasse nel cuore di “Rosemary Plexiglas”, ricucendo lo Scisma del nostro alt-rock? Se davvero lo imbottisse di frequenze “oltre-oceaniche”? Nel dubbio, chiedete pure a “Iago”, a “Clessidra”, o a una qualsiasi di queste cinque tracce sulla neve che ci accerchia.

Onore al merito per aver re-inserito la parola “gattino” nei versi di questo fanta-horror (“Odio il sole”, che insieme a “Iago” era già presente su “Cella Zero” in un’altra versione). Ma se ricordiamo bene nella saga di “Alien” anche il felino aveva la sua parte. Quindi, andate a visitare I Giardini di Chernobyl. Noi ci abbiamo trovato le uova, i facehuggers, e il magnetismo dell’animale. Non più così morente.

 

Data:
Album:
I Giardini di Chernobyl - Magnetica
Voto:
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