Alice in Chains – Facelift

alice in chains facelift
Nati alla fine degli anni ottanta come combo devoto all’istrionismo street-metal allora dilagante, gli Alice in Chains – ancora noti sotto la sigla Diamond Lie –, dopo qualche anno passato ad affinare il suono tra prove e concerti vari, verranno subito messi sotto contratto dalla Columbia che garantirà loro il disco di debutto: ‘Facelift‘ appunto.

L’album, che condensa in dodici tracce il suono della band, è il risultato della revisione stilistica del loro primo repertorio, esperibile su più bootleg datati pre-90: le pose e l’attitudine dei quattro – c’è ancora Michael Starr al basso – vengono in sostanza ridimensionate così come le canzoni si affidano ora ad un approccio più grezzo e diretto, sposandosi al meglio con la febbricitante scena di Seattle allora in potenza – e di li a poco in atto crescente. “We Die Young”, l’ormai classica “Man in the Box” e “Bleed the Freak” sono esperimenti riusciti di solida commistione stilistica: Metal, Hard Rock, melodia e una buona dose di opprimente disperazione – incarnata nei guaiti del compianto Layne Staley –, garantiscono l’ottima riuscita di gran parte del materiale che sfila su ‘Facelit‘; che non per niente, di li a poco , diventerà pure disco d’oro.

I can’t remember” e la lunga confessione di “Love, Hate, Love”, con la loro profonda tensione, distesa sulle solide impalcature ritmiche tessute da Cantrell, si fanno ricordare con annesso groppo in gola e delineano l’archetipo delle fenomenali semi-ballate elettriche che tingeranno di mesto disincanto i solchi del successivo e celebrato ‘Dirt‘. L’inneggiante “It ain’t like That” – suonata dal vivo nella commedia Singles di C. Crowe – funge invece da battistrada per la seconda parte del disco, per intenderci quella che riecheggia maggiormente i trascorsi del quartetto: lo spostamento di registro – “Sunshine” e il suo bridge ne sono l’esempio più lampante – si avverte chiaramente, anche se non è nulla di così antitetico con il resto dell’album, e i riff di “Put You Down” e “I Know Something” sembrano seriamente presi in prestito da una jam tra i Mother Love Bone di Andrew Wood e i Guns ‘n Roses del conterraneo Duff McKagan – anche se le affinità con i losangelini finiscono decisamente qui e le trame sonore si svilupperanno in contesti ben distinti e distanti.

Real Thing” chiude l’album, con l’efficacia di un pezzo trainante, oppresso tuttavia dalla cerea nube del passato e presente – e purtroppo ora possiamo aggiungere anche futuro…– di Staley, che omaggia il brano di un testo che riflette in modo disarmante la sua condizione e quella di chi gli sta accanto. Detto fra noi, ‘Facelift‘ è l’album più distante possibile dagli Alice in Chains che solo un paio d’anni più tardi confezioneranno un autentico capolavoro acustico del calibro di ‘Jar of Flies‘, eppure rimane tuttora un documento spiazzante della cupa poetica di Staley e della devozione più totale di Cantrell all’Hard-Rock, oltre che il punto di partenza, e al contempo di passaggio, di un gruppo che si sta trasformando in qualcosa di più complesso e viscerale: una gran privazione sarebbe il non appropriarsene.

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Alice in Chains - Facelift