Red Hot Chili Peppers – Mother’s Milk

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In un’intervista recente, Anthony Kiedis rifletteva sul fatto che i dischi tirati, coraggiosi e spavaldi vengano fuori più facilmente quando non hai nulla rispetto a quando hai vincoli, investimenti, famiglie e bilanci. E lungo tutti gli anni ’80 i RHCP avevano poco, in fondo. Aggiungiamo che quel poco che avevano, per quel che si racconta, se lo mangiava in parte l’eroina.

Di sicuro, quando arrivano a Mother’s Milk, Flea e Kiedis sono in un momento cruciale. Hanno appena dato l’addio a Jack Irons, poco tagliato per quella vita lì (lo testimonierà anche la dipartita dai Pearl Jam, tanti anni dopo) e un altro tipo di addio a Hillel Slovak, trovato morto dopo giorni di silenzio infinito.

Ma il carro riparte presto e ci salgono al volo Chad Smith e John Frusciante: quadrato il primo e informe il secondo. Frusciante fa il miracolo di essere il chitarrista perfetto di una band che aveva già avuto il suo chitarrista perfetto. Anzi, di più: il suo chitarrista perfetto morto. Nel senso che Slovak, un’icona già sul campo, con la sua morte per overdose era assurto a immagine sacra di ragazzo spettinato, a dorso nudo, sofferente e insieme vitale. Frusciante all’epoca di Mother’s Milk è un ragazzino, un fan della band, uno dall’aria arrogante, che fa le facce, che si mette in pose freak e tiene il palco splendidamente.

La produzione è affidata nuovamente a Micheal Beinhorn, come per The Uplift Mofo Party Plan. Doveva ancora arrivare la lunghissima era Rick Rubin e il suono di Mother’s Milk, va ammesso, è un po’ legato al proprio tempo. Ma anche questo rende il disco irripetibile: transitorio perché lontano dal successo planetario di “Under The Bridge”, eppure anche evoluto rispetto alle prove generali di crossover, fino ad ora sempre un po’ sbilanciate. Ogni volta troppo da una parte o troppo da un’altra (il funk à la George Clinton, il punk, la new wave di “True Men Don’t Kill Coyotes”).

Invece, canzoni come “Subway To Venus” fondono la musica bianca e quella nera, lo scazzo e una qualche forma di rigore, i Germs e James Brown, gli assoli metal e le trombe. “Stone Cold Bush” è un incendio di rime sputate, con un ritornello aperto e il melodico orgasmo di Tracy Lords come intermezzo. Non c’è una traccia che non trasudi selvaggia sensualità. Basti riascoltare le cover di “Higher Ground” e “Fire” (ultimo reperto dell’era Slovak). “Pretty Little Ditty” è la bella strumentale che verrà torturata anni dopo dai Crazy Town. E poi c’è il lato più buio, che in fondo, buio non è: “Taste The Pain” è più subdola che tragica e “Knock Me Down”, tra i miliardi di canzoni sull’eroina è una delle più luminose. E senza che per questo venga mai smarrito il nocciolo della questione.

“If you see me getting mighty,

if you see me getting high, knock me down,

I’m not bigger than life.”

Il gruppo di Mother’s Milk ha poco a che spartire con ciò che diventerà da Californication in poi. Quell’approccio strafottente, sudicio, sperimentatore, nel 1989 partorisce, nella beata incoscienza, una guida ragionata al crossover, al maltrattare uno strumento, al soccombere alla bellezza femminile, al cadere senza farsi troppo male. Noi e quei personaggi caricaturali, un tutt’uno. Quel titolo e quella copertina. Guardavamo come un film quel mondo di Los Angeles, quel suono, le facce sceme di Flea e Kiedis, per poi fingere di essere come loro. Frusciante che suona andando su e giù con le ginocchia e Slovak che, intanto, non si è ancora svegliato.