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6 Aprile 2017 | XL Recordings | arca1000000.com | ![]() |
Un corpo non sarà mai sufficientemente nudo fino a quando non gli strappi la pelle di dosso.
Mettersi a nudo, metaforicamente parlando: per molti uno ostacolo da evitare, per altri una grande opportunità introspettiva. Le emozioni che portano a tele ricerca interiore possono essere molteplici e variabili. Ma tutte finalizzate ad una “nudità” che reclama risposte.
Nel caso del Velezuelano Alejandro Ghersi in arte Arca non ci è dato sapere molto di più di quanto già trapelato dalle interviste rilasciate. Siamo certi però che la “vita dentro una bolla” a cui Alejandro allude altro non è che la ‘fortezza’ dei suoi ricordi infantili. Un’adolescenza – vissuta nel benessere e nel lusso all’ombra di una famiglia ‘perfetta’ – che nel tempo si è trasformata in una morsa soffocante: specie se si tratta di accettare (e far accettare) la propria omosessualità.
Nel nuovo “Arca” troviamo un Ghersi in fuga da uno stato di benessere apparente, pronto a dare libero sfogo alla sua vera natura riuscendo a tracciare nuovi percossi narrativi, semplici ma incisivi. Autostrade del silenzio piuttosto che il disordine organizzato delle grandi metropoli. La purezza di una tinta monocromatica anziché miscugli allocroici. In musica: mettere ordine usando il disordine.
Abbandonate le stratificazioni rumorose e poliritmiche del precedente “Mutant” (2015), Arca predilige la quasi totale assenza di ritmi scandendo la propria voce su basi minimal electro. La sua voce è quanto mai sensibile e messa “a nudo”, fluttua e vaga come un’anima persa nel buio in cerca di qualcosa a cui aggrapparsi; un senso d’appartenenza.
Forse inattesi, ma ascoltando l’opera vengono in mente certi passaggi di “Blemish” di David Sylvian (2003) o “Homogenic” di Bjork (1997) – con cui ha collaborato producendo l’ultimo “Vulnicura” (2015). Album questi che, in modo diverso ed in tempi diversi, si riallacciano all’estetica di “Arca” dando spessore alla “nudita” di una voce mentre cerca di farsi spazio tra le rovine del suono.
Un disco sublime questo di Arca, supremo nella sua essenza intimistica, che gioca con le proprie debolezze trasformandole in aghi pungenti, in lame taglienti, dandone spessore in un continuo contrasto di emozioni e ossessioni: l’amore e l’abbandono, la solitudine e la persecuzione, la ricerca della vita e l’abbandono alla morte.
Si inizia con le inquietudini di “Piel” e con la voce di Arca si immerge gradualmente in un feedback di suoni fastidiosi e bassi ventrali. Il lirismo teatrale melò della seguente “Anoche” è puntellato da un piano stridente che precede il glitch operistico di “Saunter” ed il post-Bjork di “Reveire”: in cui sembra di navigare in un mare digitale schiaffeggiato da lamiere post industriali – il video che lo accompagna, diretto da Jasse Kanda, inscena una disturbante odissea mutuata da qualche vecchio film di David Cronenberg.
Poi è il turno degli spruzzi digitali e delle fustigazioni glaciali di “Castration” e “Whip” e delle emozioni da Club Silenzio di lynchiana memoria in “Sin Rumbo”. La voce agonizzante di “Coraje” accompagna le note di un pianoforte che lamenta da molto lontano, per poi finire all’interno di una relazione amorosa fra fisarmonica campionata e archi digitali nella romantica “Desafìo”.
L’ultima fra le nudità, “Child”, è un carillon datato che riporta allo stato di ricerca iniziale, lo stesso punto di partenza che pone altri quesiti, altre riflessioni su quanto e cosa abbiamo fatto, e dove ancora dobbiamo dirigerci.




