1977
– LOW
«Pronto, Tony?» «Sì?»
«Sono David, David Bowie […] Ascolta, ho un’idea di
fare un esperimento con Brian, Brian Eno, te lo ricordi. Stavamo parlando
di fare un album che potrebbe essere o incredibile, o solamente un totale
spreco di tempo. Ti va di sacrificare un mese della tua vita per qualcosa
che potrebbe non essere mai dato alle stampe?» «Puoi contarci!»
Oggi Tony Visconti ci dice che è andata così nel
1977, quando l’amico David lo richiamò per produrre assieme
“LOW” in una Berlino Est che «Ha
la strana capacità di farti scrivere solo le cose più
importanti. Non scrivi nient’altro… e alla fine concepisci
“Low”» (nda: titolo provvisorio dell’album
fu “New Music: Night & Day”).
Sperimentazione. Ecco cosa voleva il nostro camaleontico artista. Si
era così portato a Berlino tutti gli amici più fidati:
Tony alla produzione, gli ottimi Carlos Alomar, George Murray e Dennis
Davis (chitarra, basso e percussioni), l’amico Iggy Pop come supporto
morale (David era sempre più in crisi con la moglie Angie), Brian
Eno come new entry e tutti gli altri, ottimi collaboratori. Un impresa
folle tutto sommato, quella di andare a produrre un album simile in
un paese al di là della cortina di ferro, forse proprio per questo
ancora più stimolante per tutti questi grandissimi artisti e
professionisti.
Belino Est, il quartiere turco di Kreuzberg, un luogo davvero suggestivo
e ricco di ispirazione: «Low è
un disco terribilmente introspettivo, in cui esprimo me stesso e le
mie reazioni al suggestivo mondo dell’Est.»
Gli studios “Hansa by the Wall” diventano per un
mese il “covo” dello staff, che gira la capitale
in lungo e in largo rimanendo affascinato dalle atmosfere della capitale
dell’Est, che si riflettono totalmente in questo nerissimo album,
che fu un vero e proprio choc per RCA e pubblico: l’album fu quello
che riscosse minor successo commerciale dell’intera trilogia,
nonostante il single “Sound and vision” avesse
raggiunto il #2 nelle classifiche UK. Mentre il progressive, il glam
e la psichedelia cedevano il passo e il punk prendeva le redini della
scena musicale, Bowie ebbe il coraggio di osare più di ogni altro,
liberandosi di ogni legame col passato. «Low
è una reazione al rock’n’roll americano sul quale m’ero adagiato.
Ho voluto venir fuori e ritornare in Europa. Mi sono detto: vuoi diventare
un clown di LA? Meglio che ti ritiri piuttosto. Ciò che devi
fare è guardarti dentro con più accuratezza.Cerca la gente
che non riesci a capire e un posto dove non vorresti abitare e cerca
di vivere in questo contesto. Compra da solo ciò di cui hai bisogno.
Ed è esattamente quello che ho fatto. Ho un appartamento proprio
sopra un grande magazzino».
L’apporto di Brian Eno – che per una migliore interazione
con le sue strumentazioni voleva essere lasciato da solo mentre suonava
– è decisivo per attuare definitivamente questa tanto agognata
svolta, il bravo tastierista irlandese aiuta il nostro a concepire canzoni
che se da un lato (quello A) riescono ancora ad esprimere il “Bowie
style”, dall’altro sono intrise di atmosfere cupe grazie
a inquietanti cavalcate elettroniche profondamente surreali ed espressive,
che non necessitano neppure di parole; una novità di rilievo
nella lunga discografica del nostro artista, che si lascia contaminare
dalla musica ambient, che secondo lo stesso Eno è «Musica
composta per potenziare subliminalmente le migliaia di stimoli della
vita di ogni giorno». Grazie a lui cambiano totalmente
le modalità compositive «Low
è qualcosa che è derivato da un metodo e da un processo,
senza pensare alle conseguenze e senza preoccupazioni di sorta?».
David ricorda col sorriso sulle labbra quegli anni: «Dal
punto di vista artistico, gli anni dal 1977 all’81 furono assolutamente
dinamici. Bian Eno trattava gli studios come nessuno ai tempi, ci lavorava
come se fossero essi stessi uno strumento, che è un pò
come succede adesso specialmente nella dance, ma in quell’epoca
non c’era lavora come nessun altro capace di fare una cosa simile,
a parte due tedeschi! Mi ha davvero messo in grado di comporre veri
incidenti musicali (?)»
L’album
a un primo acchito suona ostico e criptico, glaciale e distaccato a
tratti: non preoccupatevi se avrete queste impressioni, è assolutamente
normale, poiché questo è un album che si assimila molto
duramente, che vuole essere “masticato” per bene per regalarci
tutti i suoi sapori.
E bisogna anche tener conto delle difficoltà dell’«esordio»:
vi anticipiamo già che i successivi “Heroes”
e “Lodger” saranno due album se non meno sperimentali,
comunque più godibili di “Low”.
L’introduttiva “Speed of life” è già
un segno dei cambiamenti: un pezzo glam strumentale che però
suona diverso, più freddo grazie ai synths. La chiave di tutto
sta nel titolo: David che vuole accelerare i suoi cambiamenti e questo
pezzo che fa da pietra miliare ancor più di “Station to
Station” e apre per “Breaking glass”, un
pezzo assai breve ma davvero espressivo, dalla forte carica grottesca
e contraddittoria.
Anche “What in the world” procede lungo questi
binari, un pezzo che in molti hanno definito fra I più stralunati
del Duca, in cui la chitarra di Carlos duetta con gli strampalati, bizzarri
suoni dei synths di Brian, e Iggy ai cori. Ascoltandola bene a tratti
viene il dubbio se si stiano prendendo gioco dell’ascoltatore,
e questa domanda devono essersela posta davvero in molti nel ’77.
Lo stupore continua in “Sound and vision”, il single
di maggior successo tratto dall’album, una canzonerai suoni quasi
giocosi, dai cori infantili a tratti, che sembra raccontare una sorta
di esperienza psichedelica, oppure la tristezza dell’ambiente
di LA. Difficile dirlo, le lyrics di “Low” sono impregnate
di un ermetismo estremamente radicale.
“Always crashing on the same car” sembra da questo
punto di vista molto più chiara, un pezzo riflessivo e autoreferenziale,
su un uomo che nonostante tutto continuava coi suoi errori, mentre “Be
my wife” è il momento più chiaro e dolce dell’intero
album, quello in cui anche il nobile artista sembra abbandonare il suo
distacco rivelandosi umano, anche lui. “A new career in a
new town”… poteva mai esserci titolo più significativo
per questa esperienza umana e artistica? No, ed ecco che David ci regala
questa strumentale dai suoni così amabilmente “kraut”,
segno dei tempi e dei luoghi che cambiano, inaugurando la seconda facciata
dell’album.«La prima facciata
di Low è tutta incentrata su di me: ma la seconda facciata è
più una riflessione in termini musicali, la mia reazione alla
vista di Berlino.Era qualcosa che non potevo esprimere a parole»
Ma ciò che ci attende è ancora più esaltante: la
traccia numero 8, “Warszawa”, è semplicemente
un capolavoro, una perfetta “colonna sonora senza immagini”
come fu definita tempo addietro, capace di rievocare devastazioni, torture
e morte di una città che, come Berlino, fu atrocemente ferita
dagli orrori della Seconda Guerra Mondiale ma in cui comunque ci fu
il coraggio di continuare, di ricostruire, di dire «io esisto
e sono ancora qui», come la voce di David a un certo punto
sembra volerci suggerire. Fu questa magnifica sinfonia elettronica a
stupire David Glass, il celebre compositore, che anni dopo pubblicò
un album sinfonico basato sulle musiche di “Low”
(e lo stesso fece pure per “Heroes”). La cult band
darkwave Joy Division (oggi New Order) inizialmente si chiamò
“Warszaw” in onore a questo brano, che molto colpì
Ian Curtis e compagni.
Atmosfere che si propagano nelle seguenti “Art of decade”,
un pezzo crepuscolare che ci vuole fare assaporare l’aria berlinese
e che sembra colonna sonora ideale di una delle liriche dedicate a questa
città da Georg Heym, e in “Weeping Wall”,
un tentativo quasi di umanizzare, di dar voce a una costruzione che
di umano aveva ben poco e a tutti coloro che a causa di essa tante lacrime
versarono.
Spetta alla notturna “Subterraneans” l’arduo
compito di chiudere questo controverso album. Poche parole ancora una
volta criptiche ma la voce di David, sofferente come non mai, ci lascia
intuire come questa canzone gli stesse molto a cuore, forse perché
in essa ripercorre, rivive i suoi momenti più bui, quelli sotterranei
che ai comuni mortali non è dato vedere, a meno che non vogliano
scavare in profondità. E forse è proprio questo quello
che egli voleva da parte del proprio pubblico: che iniziasse a scavare,
a scandagliare ogni nota e parola per capirlo meglio, senza limitarsi
alla mera apparenza, di cui ormai si è spogliato in nome di immagini
che danno a pensare. Forse è davvero andata così, almeno
ci piace pensarlo.
1977
bis – “HEROES”
Il 1977 che anno… come? Davvero pensavate che fosse finita qui
almeno per quest’anno? Ci “tocca” deludervi invece
perché quest’anno si rivela assai prolifico per il nostro
camaleonte: in settembre lo ritroviamo più attivo che mai a scrivere
e registrare a quattro mani il secondo atto solista di Iggy Pop, il
cult album “Lust for life”, durante le registrazioni
del quale conosce i fratelli Sales, membri della band dell’amico
e con cui dieci anni dopo darà vita al progetto Tin Machine.
Le novità più ghiotte però giungono in autunno
inoltrato: in ottobre David e il suo staff ri-occupano gli “Hansa
by the wall” per dare già vita a un seguito di “Low”.
Berlino piaceva sempre più a Bowie, che vi si era ormai stabilito:
«Ciò che più gli piaceva
era il potersene andare in giro senza essere riconosciuto, visto che
allora portava anche un paio di baffetti» ci spiega
Tony Visconti. Egli infatti usava andare in giro in bici o a piedi,
rinunciando alla macchina ed immergendosi totalmente nella città,
quasi volesse fondersi con essa – e la copertina di “Low”
con lui immobile di fronte al muro è assai sintomatica da questo
punto di vista. La capitale dell’Est si rivela così una
città assai godibile da vivere, in cui trovò anche diversi
amici. E’ un clima ideale insomma, che contribuirà non
poco a influenzare la realizzazione di “Heroes”,
da molti definito l’album gemello di Low vuoi per la release nello
stesso anno e vuoi per la somiglianza delle copertine, immote e monocrome.
Lo
staff si arricchisce di un nuovo, illustrissimo membro: Robert Fripp,
il mastermind dei King Crimson scioltisi nel 1974 in seguito alla release
di “Red” e attivissimo con numerosi side-project
fra cui gli album con Brian Eno – fu proprio lui a “convocarlo”
con una telefonata – e che gran giovamento trarrà dalla “cura
berlinese”, poiché già nel 1979 assistiamo
alla release dell’acclamato solo album “Exposure”,
primo sintomo del risveglio artistico che condurrà al ritorno
del Re Cremisi.
Una collaborazione forse un po’ distaccata la sua, visto che sia
David che Tony ricordano come giunse a Berlino e fece il suo lavoro
solo soletto in un solo weekend, ma in ogni caso anch’essa decisiva
nella realizzazione di questo capolavoro della musica mondiale.
Fripp in seguito disse: «Il mio lavoro
come chitarrista è in genere meglio evidenziato nel lavoro di
altri artisti, soprattutto Bowie e Eno, che vennero da me non per le
mie idee o per il modo in cui conduco le mie cose – tutte cose
che sono capaci di sbrigarsi ottimamente da soli – ma solo come
chitarrista. Mi capita di essere un buon chitarrista, ma King Crimson
non è il miglior contesto per essere un chitarrista. Questo lo
faccio meglio lavorando con altri.»
In copertina, la suggestiva foto in bianco e nero in cui David mima
la posa di un ritratto di Egon Schiele. La produzione dell’album
si svolse linearmente e in un’atmosfera molto distesa e ciò
influì non poco sull’intero album, che risulta molto meno
“indigesto” di “Low” e viene
accolto trionfalmente.
È “Beauty and the beast” ad aprire, spiazzando
ancora tutti: un altro pezzo criptico in sui synths e chitarra vanno
a braccetto, così come l’aspra voce di Bowie, supportato
da cori dissonanti: una canzone che di fiabesco non ha proprio nulla.
“Joe the Lion” è un pezzo puramente rock
grazie alle chitarre di Fripp e Alomar che dialogano in perfetta sintonia,
dando una notevole vivacità a questa canzone che è più
che altro una “rogue story” estremamente surreale,
di quelle in stile Tom Waits o Nick Cave per intenderci meglio.
Arduo compito quello che ci tocca ora: parlare di certi capolavori del
rock non è facile, l’unica cosa giusta da fare in fondo
sarebbe ascoltarli. Bowie, Eno, Fripp, Visconti… tutti che potrebbero
entrare di diritto nella leggenda anche solo per questa ineffabile “Heroes”
(tirolo rigorosamente fra virgolette). La chitarra di Robert, i loops
di Brian e soprattutto lui, il Duca, capace di raggiungere il picco
della sua espressività. Due sono le chiavi di lettura di questa
canzone: la più nota è quella che vuole il famoso verso
«We can be heroes just for one day»
come omaggio ai famosi “15 minuti di celebrità”
che l’amico Andy Warhol teorizzava fossero destinati a ogni uomo
moderno. La più semplice è quella di una “semplice”
narrazione di una storia d’amore all’ombra del muro, ispiratagli
secondo Visconti da un bacio clandestino che egli si scambiò
con la corista Antonia Maas vicino al Muro, scena cui lo stesso David
assistette di nascosto («I remember,
standing by the Wall. The guns shot about our heads and we kissed as
though nothing could fall»). Una canzone dedicata
ai veri eroi, quelli che giorno dopo giorno erano capaci di andare avanti
all’ombra del Muro, nonostante tutto.
“Heroes”
diventa subito un grandissimo successo e il Duca, fra le tante altre
apparizioni promozionali, viene invitato al “Bing Crosby’s
Merrie Olde Christmas Show”, in cui ne offre una memorabile
interpretazione e duetta anche con Bing Crosby in “Peace on
Earth”; lo show fu registrato in settembre per essere trasmesso
alla vigilia di Natale dello stesso anno, e Crosby morirà tre
settimane dopo la registrazione. La performance fu rilasciata su un
single del novembre 1982.
Il discorso di “Heroes” discorso continua in “Sons
of the Silent Age”, un durissimo atto d’accusa contro
ogni regime del silenzio; un pezzo da riscoprire, con Bowie ancora una
volta molto teatrale, disperatamente drammatica accompagnata principalmente
da cori e sassofono. L’arrabbiata “Blackout” sembra
quasi voler anticipare diversi gruppi new wave e dark degli anni ’80,
che quasi all’unanimità si dichiareranno ammiratori del
Duca, oltre ad essere una citazione-omaggio all’amico Iggy Pop
che proprio allora stava dando alle stampe “Lust for life”.
Per questa canzone, ispirata al panico per il blackou a New York nel
luglio 1977, fu realizzato un video mai trasmesso.
Inizia ora la parte electronic-ambient del disco, “V-2 Schneider”
(sì come le purtroppo celebri testate missilistiche di hitleriana
memoria), un pezzo ibrido: se i synths di Eno costruiscono un “tappeto”
freddissimo, il bizzarro sax di David e il groove quasi dance del
basso di George Murray creano un contrasto suggestivo, anche se di difficile
comprensione. La gelidissima “Sense of doubt” sembra
quasi voler ricreare gli orrori del dopo guerra, la constatazione di
desolazione e distruzione, lo spaesamento e i tanti dubbi dei sopravvissuti.
Ma a differenza di “Warszawa” qui di speranza non
ce n’è, quella è affidata a “Moss Garden”,
in cui lo stesso Bowie si cimenta con uno strumento a corde del Giappone,
il koto, unico elemento vivo in mezzo a suoni artificiali e puramente
ambient.
Traccia con dedica è invece “Neuköln”
dedicata a uno dei più miseri quartieri turchi della capitale,
in cui il sax sembra stagliarsi contro la desolazione di questo luogo,
ancora una volta resa magnificamente dai suoni concepiti dal genio irlandese.
A chiudere questo disco ci pensa “The Secret Life of Arabia”,
un capolavoro in puro stile disco carico di groove in cui ancora una
volta strappano applausi Alomar e Murray, co-firmato da Bowie, Eno (che
non ha dimenticato la lezione Roxy Music) e dallo stesso chitarrista
ritmico, il pezzo della resurrezione avvenuta.
E dell’addio a Berlino est, partendo per un safari in Kenia fra
ottobre e novembre.
1978
– QUANTO LAVORO!
Fra il 1977 e il ’78 assistiamo ad una nuova escursione nel mondo
del cinema con “Just a gigolo”, lungometraggio
descritto come «tutti i miei 32 film
di Elvis Presley concentrati in uno», inframmezzando
le riprese del film (con Kim Novak e Marlene Dietrich) al tour di supporto
a “Heroes”. Nel maggio dello stesso anno assistiamo
a una curiosa release: il Duca che si presta nel ruolo di voce narrante
per la versione di “Pierino e il Lupo” con la Philadelphia
Orchestra, il primo dei suoi progetti dedicati ai bambini.
In
settembre decide di pubblicare il suo secondo live album: “Stage”,
registrato durante il tour americano. Questo doppio 45 giri, che vede
fra i musicisti coinvolti anche il buon Adrian Belew alle chitarre,
contiene nel primo disco pezzi dal suo primo periodo artistico, mentre
nel secondo troviamo il materiale del periodo berlinese che stava ormai
giungendo al termine. David decide infatti di levare le tende e stabilire
la propria base operativa in Svizzera, punto strategico per attuare
le proprie registrazioni e partire per paesi esotici, in Oriente in
special modo.
Berlino tuttavia è rimasta nel cuore del nostro artista, che
chissà, forse non se la sentiva di proseguire l’esperienza
nella D.D.R. per timore di ritorsioni da parte del regime, indirettamente
colpito ma in maniera decisiva con quella che è diventata una
delle più importanti canzoni rock della storia. È più
che lecito pensarlo, in fondo la STASI non faceva sconti a
nessuno.
Queste furono le sue parole in seguito a quell’irripetibile esperienza:
«Mi sentivo decisamente meglio, più
sereno e produttivo: passavo i giorni a leggere, scrivere e dipingere.
Mi piacerebbe essere conosciuto come pittore il giorno in cui avrò
l’ardire di mostrare le mie tele.»
1979
– LODGER
L’ultimo capitolo della nostra storia fu registrato ai Mountain
Studios di Montreaux, in Svizzera, e mixato ai Record Plant di New York,
benché concepito a Berlino. Uscito nel maggio 1979, l’album
segna l’ultimo atto della collaborazione con Brian Eno ma lasca
ancora una volta di stucco tutti i fan, che si aspettavano un seguito
ben diverso per “Heroes” e invece si ritrovano
un album dalla struttura assai meno criptica dei due predecessori, un
autentico LP futurista e un po’ meno sperimentale, in cui David
Bowie voleva gettare le basi del rock degli anni a venire.
Il titolo dell’album fu inizialmente “Despite Straight
Lines”, mutato prima in “Planned Accidents”
ed infine in “Lodger”. Questo strizza l’occhio
al commerciale assai più degli altri “fratelli” della
trilogia ed è stato realizzato in maniera ben diversa. Tony Visconti
ci dà ancora un’ottima descrizione dei fatti, oltre che
una eccellente definizione dell’album: «Questo
è un album strano, una sorta di chiaroscuro. Abbiamo infatti
abbandonato la struttura dei precedenti con il lato B dedicato a un
concept ambient e abbiamo solo registrato i pezzi! È stato divertente,
benché una sensazione inquietante pervada l’intero album
secondo me.» L’unica delusione per Tony fu il
mixaggio effettuato negli studios di NY, scelta che secondo lui ha penalizzato
molto le parti elettroniche del disco, visto che in quei tempi il vecchio
continente era decisamente superiore in questo campo.
I cambiamenti si avvertono già nella copertina: invece delle
immagini statiche e impassibili dei due album fratelli, abbiamo una
vera e propria cartolina con il Duca in posa decisamente non aristocratica,
a terra malconcio con naso spaccato, e altrettanto stucchevoli foto
interne col nostro in versione drag queen.
Il pubblico tuttavia c’è da dire che non apprezza a pieno
questo brusco cambio di direzione e in effetti è molto discutibile
anche da parte nostra la sua inclusione nello special dedicato al periodo
berlinese, visto che lì furono concepiti solo i testi (le musiche
verranno concepite in studio con esperimenti vari di cui diremo) e all’ambient
viene dedicato ben poco spazio. Un cattivo album quindi? No, affatto
e adesso vedremo il perché.
Partiamo ancora una volta dallo staff: i collaboratori principali sono
sempre i soliti Brian, Tony, Carlos, George… Fripp non c’è,
però in compenso giunge un altrettanto valido chitarrista dalla
“Zappa crew”, il signor Adrian Belew, che proprio
con Fripp collaborerà pochi anni dopo, divenendo chitarrista
e vocalist dei rinati King Crimson.
Fatte
le dovute presentazioni possiamo partire col nostro viaggio, proprio
con un pezzo chiamato “Fantastic voyage”, un pezzo
che si lascia apprezzare soprattutto per la drammaticità di Bowie,
che troviamo qui intento in alcune considerazioni sul mondo moderno,
gradevolmente accompagnato dal piano di Sean Mayes e dai mandolini (!!!)
di Belew e Visconti, con Eno in secondo piano, che però torna
in auge già nel brano successivo, il tribaleggiante e ossessivo
“African night flight”, in cui spiccano i cori,
fortemente espressivi in contrappunto ai bizzarri suoni concepiti da
Brian, che vogliono condurci nelle foreste del Congo.
Il tema del viaggio lo ritroviamo in “Move on”,
in cui Eno non compare, un pezzo basato principalmente sulla sessione
ritmica basso e batteria, monotona ma gradevole nell’impressione
di dinamicità che conferisce alla canzone. E a questo punto…
si torna a Berlino! “Yassasin” ricalca i canti
mediorientali ed è dedicata al quartiere turco in cui soggiornò
all’ombra del Muro, ma giustamente non possiamo fermarci, neanche
qui.
Bowie spiega le vele ed ecco che con “Red sails” salpiamo
per mari lontani, accompagnati dalla chitarra di Belew che qui si ispira
non poco a quella di Fripp. Ci si muove ancora ma a passi di danza in
“D.J.” un ibrido di dance, pop ed elettronica accattivante,
nonché uno dei primi celebri videoclip del nostro artista.
“Look back in anger” è il pezzo più
cupo e arrabbiato dell’album, un titolo rubato al celebre romanzo
di John Osborne, uno sguardo cupo verso il passato esaltato dal ritmo
ossessivo e dagli inusuali strumenti di Eno, che oltre ai synths si
occupa anche di tromba e corno. Tocca ora al secondo single, “Boys
keep swinging”, una sorta di incrocio fra il Bowie di fine
decennio e i Roxy Music dei primi due album che presenta un fatto curioso:
Carlos Alomar si cimenta alla batteria e Dennis Davis al basso! Alla
cupa “Repetition” e al suo basso ossessivo dovranno
molto negli anni successivi i guru del gothic rock Bauhaus (e tanti
saranno in futuri i tributi gothic al Duca, a cominciare dalla versione
di “Ziggy Stardust” dei suddetti).
“Lodger” si conclude con il groove noir di “Red
money”, il pezzo conclusivo che vede Roger Powell ai synths
al posto di Brian Eno, e volge così al termine anche il nostro
viaggio alla scoperta di questa fantastica trilogia. Per la cronaca,
“Lodger” rimane nelle chart britanniche per 17 settimane.
FINE
DELL’AVVENTURA
A fine anno Bowie entra di nuovo in studio e inizia quasi contemporaneamente
le prove per il suo debutto a Broadway nella parte di Elephant Man.
La commedia nel 1980 otterrà grande successo presso pubblico
e critica e lo stesso anno esce “Scary Monsters (and super
creeps)” album di successo che prosegue in toni ancor più
cupi quanto iniziato con “Lodger” che gli farà
guadagnare ulteriore notorietà grazie ai tre single (“Scary
Monsters”, “Ashes to ashes” e “Fashion”)
e anche il primo disco di platino della carriera.
Una tappa importantissima nella carriera del Duca, che conclude la sua
collaborazione con Tony Visconti: il duo era consapevole di «aver
ormai realizzato il proprio “Sgt. Pepper’s”»
e le loro strade si dividono amichevolmente fino al 2002, in cui decidono
di proseguire il discorso interrotto con “Heathen”
e, quest’anno, con l’ottimo “Reality”,
che ci restituiscono un Bowie pimpante dopo un ventennio di alti e bassi,
in cui la via di mezzo fra memorabili successi ed esperienze trascurabili
non è proprio riuscito a trovarla.
Chissà se adesso a 56 anni sarà in grado di scrivere un
nuovo, importante capitolo della sua storia… noi ci speriamo davvero,
da amanti della musica e da fan. Intanto non possiamo che augurarci
di avervi regalato una storia interessante e piacevole, sia come lettura
che come ascolto.
PS:
ringrazio calorosamente ATI
per la gentilissima e iper-competente consulenza durante la realizzazione
di questo special ;)