Elliott Smith – From A Basement On The Hill

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Poche parole e poca umiltà, soprattutto: questo disco è splendido.
Uscito postumo per la Domino, il lavoro di Elliott Smith ci parla di sè come nessun altro: ci rivela di nuovo che il suo autore aveva un amore spassionato per i Beatles – influenza che emerge con lucidità tra le trame sonore dell’album – e che la sua semplicità era a dir poco disarmante. Annoverato più volte, e non a torto, tra i cantautori americani più influenti e bravi di questo decennio, Smith aveva di certo ereditato la grande sensibilità che fu trent’anni prima di Nick Drake, morto anche lui troppo giovane: quella di scrivere grandi canzoni che toccano l’anima con pochi accordi e pochi strumenti; in questo caso chitarra, pianoforte e batteria. Portato alla ribalta col film di Gus Van Sant “Will Hunting”, la cui colonna sonora fu nominata agli Oscar, Smith nel suo sesto (e ultimo, purtroppo) disco in studio ci regala grandissime canzoni sia quando si tratta di riallacciare il discorso interrotto col penultimo – non troppo riuscito – album, Figure 8 (“Coast To Coast”, “Pretty – Ugly Before”, nel loro bellissimo pop), sia quando a dirigere la mente dell’ascoltatore ci sono malinconiche ballate degne dei migliori Beatles in versione bassa fedeltà (la soffusissima “Twilight”, la commovente “The Last Hour”, le beatlesiane “Memory Lane” e “Little One”), o intimi pezzi sul confine tra la psichedelia barrettiana e le grandi aperture cinematografiche (“King’s Crossing”, impressionante nella costruzioni delle linee melodiche, con un giro di accordi tendente alla pelle d’oca e trascinante nelle emozioni, il pezzo più strabiliante dell’intero lavoro).
Un lavoro decisamente di grande impatto, aspettato da ogni fan e allo stesso tempo inaspettato per i lampi di genio all’interno: l’album si muove tra scarne ballad d’orientamento a volte pop a volte lo-fi, ed emozionalità, impressionanti guizzi melodici tra il folk e l’elettricità direttamente nell’anima, mentre la voce graffia e ammalia e racconta, storie dalle quali è impossibile tornare indietro, di errori, di assenze, addirittura di morte programmata, si dice. Sarebbe ingiusto e sbagliato definirlo migliore o peggiore degli altri lavori: è un tassello in più, l’ultimo, la pagina finale e accorata di un libro di poesie. Un genio con l’anima aperta da una ferita di profondo lirismo.
Elliott Smith, nel quale almeno uno di noi una volta nella vita –senza saperlo, magari- si è rispecchiato guardando maliconicamente la sua camera, ci mancherà parecchio.
“And dragged me down at the end of the day. Don’t keep me around: just make it over.”