Björk – Medulla

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In un certo senso si può dire che Medulla, sesto disco in studio di Bjork, sia un disco arrogante: continuando a suo modo quel percorso iniziato con “Vespertine” lo scarnifica, giocando una sorta di roulette russa con il rischio, con la paradossale consapevolezza di scrivere e produrre il disco che ogni fan si sarebbe inconsciamente aspettato dal folletto islandese.
Perché il gioco forza di questo disco è quello di intersecare due piani non troppo diversi tra loro, almeno dal punto di vista formale: da una parte quello cui ci ha abituato Bjork da sempre, cioè la sua voce così teatrale ed evocativa con tanto di salti di tonalità e oscillazioni, e dall’altra quello di usare questa ormai risaputa particolarità per arrangiarci un intero disco, costruito così solo sulla voce. E’ con l’aiuto quindi di Mike Patton (Faith No More, Fantomas, Mr Bungle, e chi più ne ha, più ne metta), di Rahzel (beatbox/rapper dei Roots), Dokaka (altra beatbox, famoso per le cover a cappella di artisti famosi), Robert Wyatt (ex Soft Machine), Tanya Tagaq Gillis (cantante contemporanea) e l’Icelandic Choir che Bjork entra in sé stessa presentandosi a noi come nuda (“Medulla” significa programmaticamente “midollo”) in un doppio gioco di musica e testi – che ora puntano ad una ricerca dell’amore verso sé stessi piuttosto che dirottato verso gli altri: fondamentalmente si potrebbe parlare di un disco caratterizzato da un forte egocentrismo, nel quale Bjork in tutti i modi riesce ad esserne il centro, evidente in episodi come “Vokuro”, “Oll Birtain”, “Sonnet/Unrealities IX” come quando entrano in gioco le ritmiche costruite da Patton e Rahzel. Ed è proprio questo centro quello che, come è ovvio, scatenerà le due fazioni che si verranno a creare – cioè chi reputa questo disco come capolavoro e chi come farsa – perchè Bjork punta troppo sulla sua voce: un disco come questo, è sì pieno di belle melodie e di arrangiamenti fascinosi, ma lentamente sembra trascinarsi in soluzioni senza via d’uscita ripetendosi continuamente. E ci viene a mancare la cosiddetta sperimentazione, rendendosi conto che l’uso ormai consolidato (e come darle torto!) di quella produzione perfetta che si porta dietro contribuisce a creare un disco diverso nella forma, ma molto statico nei contenuti, cosicchè i giochi di voci si cui si basa il disco diventano un pretesto per una musica al limite dell’autocelebrazione: le antiche ballate tra sacro e profano delle già citate “Vokuro” e “Oll Birtain” che non sono certamente nuove nelle sue produzioni, i recital in lingua islandese cantati da sola (e mettere i campionamenti vocali come impalcatura non rende di certo meno diverso l’ascolto), “Desired Constellation” e “Sonnet” che sono la ripresa del discorso interrotto con Vespertine, mentre “Who Is It”, “Pleasure Is All Mine” e “Submarine” non si discostano molto da quello a cui Bjork ci aveva abituati, cioè quel pop innalzato verso l’iperuranio, specialmente nel secondo pezzo dove non mancano le classiche discese e risalite vocali (da citare per la partecipazione di Robert Wyatt e quei cori come sirene).
Di certo non mancano episodi degni di considerazione, che poi sono quelli nei quali Rahzel e Patton si fanno più sentire: “Where Is The Line” è un bellissimo pezzo nel quale si rincorrono le atmosfere creando una sorta di labirinto di ghiaccio dentro al quale la perdita di orientamento viene quasi sottolineata dalla coppia ritmica, mentre “Oceania” è una riuscitissima ninna nanna a tre voci a cappella. Last and least, l’ultima a stupire è proprio la traccia che chiude il disco, “Triumph Of Heart”, dove le voci di Dokaka, Rahzel e Patton creano una base al limite tra dancefloor/techno e il pop, episodio totalmente estraneo alla carriera di Bjork e profondamente riuscito nell’incastro di ritmica e voce. Ma si rimane sempre in episodi alqualnto isolati, che non ricalcano appieno il presunto ruolo – quello sperimentale – che il disco doveva nominalmente coprire.
E per l’insieme di tutte queste considerazioni che “Medulla” non può e non deve essere considerato un disco brutto o mal riusciuto, ma neanche chissà quale capolavoro: è il classico disco che ti aspetti da Bjork, ostico alla vendita, ostico per il marketing, ma facilmente digeribile e per nulla spiazzante per un pubblico che da tempo la segue, per quanti Patton, Rahzel o Dokaka ci siano.